di Fabio Massimo Nicosia
Questo purtroppo lungo intervento fu pubblicato sul numero 257, ottobre 1999, di A - Rivista Anarchica con l'anòdino titolo "L'opinione di un libertarian", e segnò l'"ufficializzazione" del distacco dell'autore dall'ambiente anarco-capitalista di allora, sulla base di una critica agli orientamenti in voga in quel momento in quel movimento.
Si segnala in particolare la descrizione critica di un modello analitico, che successivamente fu definito ironicamente "Il quadrato di Nicosia".
Come i lettori di questa rivista sanno, opera da alcuni anni nel nostro Paese un piccolo movimento
"anarco-capitalista". Dopo l'isolata meteora della rivista Claustrofobia (cinque numeri usciti alla
fine degli anni '70, frutto dell'opera solitaria di Riccardo La Conca), attorno alla metà degli anni '90
ha incominciato a formarsi un gruppo di giovani intellettuali di diversa provenienza (ognuno la
sua), che dichiarava di rifarsi al pensiero libertarian americano, e in particolare a quello del suo più
sistematico interprete, l'economista e altro Murray Newton Rothbard.
All'interno del gruppo, che non è mai stato del tutto omogeneo, si è via via sviluppato un dibattito
teorico di qualche interesse, e sono emerse differenze, che paiono difficilmente componibili, non
solo di metodo, ma anche sui principi fondamentali e sulle preferenze sui diversi possibili stati di
cose intermedi (quelli che qualcuno, marxisteggiando, chiama "i problemi della transizione").
La distinzione ha anche riflessi politici; non si deve dimenticare, infatti, che la componente del
gruppo che più ha voluto e saputo organizzarsi si è riconosciuta a lungo nell'area leghista,
addirittura partecipando con una propria lista alle cosiddette elezioni padane e ancor oggi considera
il secessionismo il punto duro della propria strategia. In particolare, questo gruppo si è negli ultimi
tempi caratterizzato per una serie di prese di posizione di segno francamente conservatore su una
serie di temi come immigrazione, libera sessualità, e in genere libero uso del proprio corpo,
entrando in evidente contraddizione con le proprie premesse libertarie, secondo le quali l'autoproprietà
del corpo sarebbe il primo dei diritti di ciascun individuo.
Combinando il secessionismo con la preferenza per il conservatorismo morale, emerge un quadro
preoccupante, aggravato dalla valorizzazione del concetto tardo-rothbardiano di "Nazione per
consenso".
Rothbard, che per tutta la vita ha predicato il più radicale ed eccessivo degli
individualismi metodologici, prima di morire scopre che l'uomo non nasce solo, ma in una famiglia,
in un gruppo, con una lingua, una cultura, e chiama tutto questo "nazione"; per preservare la
premessa libertaria, la nazione di Rothbard è "per consenso", ma il velo è fragile, e la
contraddizione irrisolta. Per i nostri libertari-padanisti è un invito a nozze, lo strumento di cui essi
hanno bisogno per conciliare l'originario individualismo radicale con quello che alla prova dei fatti
si dimostra un comunitarismo su base etnica.
Quel che allora occorre comprendere, anche per formulare un giudizio più preciso sul pensiero
rothbardiano e sul segno dell'esperienza anarco-capitalista (almeno di quella della componente che
a Rothbard si rifà), è se siamo di fronte a una contingente degenerazione in senso autoritario, ovvero
se il vizio non stia alla radice stessa della teoria, sicché i suoi prodotti malati ne sono coerente
implicazione e conseguenza.
Innanzitutto una premessa di metodo: il gruppo in questione ha dimostrato di condividere un
atteggiamento piuttosto dogmatico e fideistico, che identifica pressoché in toto l'idea libertaria con
il pensiero di Rothbard, considerando come altrettante insidie "stataliste" da respingere a priori le
gravi obiezioni alle quali quel pensiero si espone.
Nel merito, la nozione fondamentale su cui si incentra - anche quando non evocata direttamente- il
dibattito è quella di "proprietà", di "diritto naturale di proprietà". Secondo la concezione
rothbardiana, il proprietario è sovrano assoluto non solo del proprio corpo, ma anche dei frutti del
proprio lavoro. E qui emerge una prima difficoltà, perché conseguenze estreme vengono fondate su
una premessa estremamente incerta: la nozione di lavoro. Per Rothbard, infatti, qualunque atto di
occupazione in grado di dimostrare effettività è "lavoro" che legittima la proprietà, anche se in
realtà si tratta di un atto di forza in sé improduttivo, come quello di recintare un terreno.
Le conseguenze sono radicali, si diceva, come si ricava da un esempio.
Immaginiamo che quattro proprietari rothbardiani abbiano ognuno un vertice in comune con l'altro,
in modo da disegnare un quadrato completamente intercluso, che costituisca res nullius.
Immaginiamo ancora che un paracadutista atterri in quel quadrato.
In base alla teoria rothbardiana della proprietà, i quattro proprietari circostanti non hanno alcun
obbligo nei confronti del paracadutista: nessuno, per Rothbard, può essere obbligato a un facere e
omettere è sempre lecito (ad esempio, la madre che lascia morire di fame il proprio figlio esercita
un proprio diritto naturale).
D'altra parte, vien sottolineato, il primo carattere della proprietà è la
facoltà di esclusione (ius excludendi alios), sicché il proprietario che lascia morire il paracadutista
esercita un proprio diritto anche sotto tale profilo. Per contro, magra consolazione, il paracadutista
diviene proprietario della res nullius da lui stesso occupata: la proprietà come gabbia nella quale gli
altri ti rinchiudono.
Se non ci piacciono le gabbie, c'è qualche cosa che non va in tale teoria, ed è il suo assolutismo e
unilateralismo: si diviene proprietario legittimo indipendentemente dalle condizioni degli altri: ogni
proprietario è autocertificato, e cionullameno il suo diritto di proprietà si impone sugli altri,
costituendo unilateralmente in loro capo obblighi giuridici, che essi debbono rispettare pena
sanzione, indipendentemente da qualunque consenso o considerazione di utilità: esattamente come
nelle più vecchie dottrine giuridiche imperativiste.
Esattamente come queste, del resto, la dottrina
rothbardiana giustifica l'assolutismo del sovrano (in veste di proprietario) con formule di
legittimazione sovrannaturali, nel nostro caso sulla "natura" e sul "lavoro", o meglio sul preteso
diritto naturale, che deriverebbe da un bruto atto di occupazione originaria.
Tutto ciò è molto new age, ma non sembra in grado di fondare una teoria della libertà, quanto
piuttosto una del fondamento legittimo del potere e del comando. Il proprietario ha infatti pieno
potere sul territorio che controlla, quindi anche sulle persone che lo occupano, con la sola
esclusione della pena di morte.
È ovvio che qui si tocca un punto critico, perché altro sarebbe se tale potere proprietario fosse
soggetto alla condizione restrittiva della sua universalizzabilità. Capita invece che tra i padanisti rothbardiani
vi sia chi teorizza esplicitamente che, se un solo uomo divenisse proprietario dell'intero
mondo, egli potrebbe esercitare (non si sa come, ma le considerazioni di effettività sono respinte
come spurie) il proprio ius excludendi alios nei confronti dell'umanità intera.
Un argomento così
contrario alle nostre intuizioni morali ci dice che la teoria rothbardiana della proprietà, se queste
sono le sue conseguenze, deve essere respinta come non libertaria, anzi, come autoritaria.
Non si direbbe, a questo punto, che vi sia differenza, se non nei presupposti di legittimazione, tra
una relazione con un proprietario e una con uno Stato sovrano. Da qui infatti gli equivoci
secessionisti: in fondo non c'è grande differenza tra uno Stato "piccolo" e una proprietà "grande": lo
Stato piccolo va quindi comunque preferito, anche se illiberale, anche se le sue leggi discriminano
omosessuali o tossicodipendenti (si veda la polemica sui "diritti degli Stati" negli U.S.A. contro
Washington, pur se in ipotesi Washington garantisse più diritti individuali rispetto alla comunità
locale).
Se non v'è differenza sostanziale tra il potere sovrano del proprietario e quello dello Stato, in attesa
di secessioni individuali prossime venture, da noi spetta alla Padania rappresentare in qualche
modo, riconosciuto imperfetto, la proprietà dei singoli: anzitutto vietando l'immigrazione,
considerata alla stregua di una violazione di un pur vago diritto di proprietà dei residenti "che
pagano le tasse" sugli spazi pubblici. Si noti che, in realtà, un proprietario sarebbe perfettamente
libero di escludere come di ammettere, ma lo Stato (padano), non si sa perché, dovrebbe farsi carico
esclusivamente della preferenza escludente. Poco importa se, così facendo, i costi dell'esclusione
vengono fatti ricadere su chi non condivide tale scelta, dato che il dogma antitributario vale solo per
le prestazioni di assistenza, non anche per quelle di polizia.
Qualunque teoria della proprietà che voglia essere libertaria ed evitare l'effetto-gabbia non può che
muovere da una premessa comunista: occorre cioè assumere che, in origine, tutti hanno in comune
la proprietà del mondo. Rothbard riconosce la moralità di tale ipotesi, ma la respinge come
irrealistica in nome della separatezza degli individui e dell'impossibilità che ognuno possa
possedere effettivamente l'intero mondo; egli denota però così limiti di cultura giuridica, dato che
l'istituto (privatistico) della comunione ben consente di immaginare che ognuno possa essere
proprietario del mondo pro quota.
Ecco allora che il comunismo originario non impedisce affatto
che le quote possano circolare e dar vita a un mercato, consentendo detenzioni individuali ed
eventualmente legittimando la stessa divisione della comunione.
Tale concezione (quella secondo cui il mondo è originariamente di proprietà comune di tutti gli
uomini), è dominante nel cristianesimo primitivo, ma non è affatto estranea nemmeno alla
tradizione del liberalismo classico. Non si spiega altrimenti, ad esempio, la "clausola di Locke", in
base alla quale l'appropriazione è illegittima se ne derivino privazioni per gli altri.
E si noti che
Rothbard, il quale fondamentalmente recepisce la concezione lockeana della proprietà, ne respinge
proprio la "clausola" di ragionevolezza, aprendo così la strada alla aberranti conseguenze indicate.
Analoga impostazione si rinviene in tutti quei liberali classici (compreso Bastiat), per i quali il
fondamento giustificativo della proprietà è nella produzione, dunque nell'utilità che, attraverso essa,
si procura agli altri. Si veda ai tempi nostri la scuola dei property rights (Demsetz e Alchian), o
James Buchanan, secondo i quali la proprietà scaturisce da un contratto, se si vuole da una
convenzione, e non mai da un atto unilaterale di imperio accompagnato dall'enunciazione di un
mistico diritto naturale.
Ma se nasce dallo scambio, la proprietà ne reca i segni, non essendo pensabile che dall'accordo
possa scaturire il dominio di uno degli scambisti sull'altro, o il peggioramento delle condizioni di
uno di loro. Nella peggiore delle ipotesi, il non proprietario si sarà quantomeno garantito un diritto
di passaggio e di circolazione, nonché, si direbbe, di accesso a una quota di risorse naturali. Ciò
intacca allora il mito dello ius excludendi alios, che a questo punto appare più un frutto "legislativo"
e imperativo, che non il prodotto di libere interazioni di mercato.
Rothbard muove da una visione restrittiva della natura umana, imperniata attorno al concetto di
lavoro stanziale, che attraverso, l'occupazione, fonda il diritto di proprietà. Il nomade non ha diritti
sulla terra. Eppure l'uomo è anzitutto un animale dinamico, la sua azione implica movimento; nella
sua natura non v'è domanda di proprietà fondiaria più di quanto non vi sia domanda di spazi aperti.
Se perciò è lecito fondare diritti sulla natura umana, tra essi vi è sicuramente un qualche diritto di
circolazione, che limita ab origine il diritto di proprietà altrui.
I rothbardisti replicano alle critiche, dicendo che certe conseguenze paradossali sono improbabili, e
che sono i meccanismi di mercato a porvi rimedio. Tuttavia la risposta è elusiva, perché quelle
conseguenze sono comunque ritenute legittime, e anzi talora attivamente difese: come quando si
sostiene che in una città privata un'assemblea condominiale potrebbe legittimamente deliberare
l'esclusione degli omosessuali, violando così il principio della primazia della proprietà del corpo su
quella dei beni, nonché allo stesso tempo contraddicendo l'avversione da sempre manifestata per le
decisioni collettive e a maggioranza.
Se poi è vero che il mercato fornisce il sistema di pesi e contrappesi in grado di prevenire le
conseguenze indesiderate, vuol dire che la teoria libertaria della proprietà deve incorporare il
mercato: vuol dire che la teoria rothbardiana non è autosufficiente, e che deve essere integrata da
una componente che qualcuno definirebbe spregiativamente "utilitarista", ma che in realtà esprime
una moralità superiore, in quanto prende in considerazione gli interessi legittimi di ciascun singolo
individuo. Ad esempio, negando che sia diritto di qualcuno lasciar morire qualcun altro in
conseguenza dell'esercizio di un proprio "diritto"; ad esempio, considerando che non si vede in
forza di che i nuovi nati dovrebbero essere tenuti a rispettare un assetto proprietario, che non hanno
concorso a determinare, se quell'assetto si dimostra per loro svantaggioso.
Ma torniamo al mercato. Il contributo rilevante del movimento anarco-capitalista è l'aver
individuato nella teoria del mercato, così come elaborata dall'economia classica e neo-classica (il
tanto enfatizzato contributo "austriaco" è sotto tale profilo del tutto riconducibile alla tradizione
neo-classica), la meta-istituzione universale dell'anarchia possibile. Se c'è un sistema che consente
agli uomini di cooperare in assenza di autorità centrale, questo è il mercato, ossia la rete delle
relazioni di scambio tra individui di ogni parte del globo, senza vincoli territoriali.
L'opposto concettuale del mercato è l'organizzazione, che infatti viene invocata ogni qual volta ci
troveremmo innanzi a un "fallimento del mercato". Nel suo famoso saggio "La natura dell'impresa",
l'economista Ronald Coase sostenne che l'organizzazione aziendale, attribuendo a qualcuno il potere
di comando, consente di ridurre i costi di transazione, ai quali si andrebbe incontro ove alle
decisioni si sostituissero libere interazioni di mercato. L'esperienza ha tuttavia dimostrato come
spesso le organizzazioni, produttive o no, aggravino i costi di transazione, piuttosto che ridurli,
semplicemente trasferendo la conflittualità all'interno dell'organizzazione, e anzi enfatizzandola in
una lotta per il potere.
L'alternativa è quindi tra organizzazione, che, come il realismo politico insegna, è sempre fonte di
gerarchia, e mercato, inteso come ambiente delle relazioni paritarie. Lo sviluppo tecnologico mostra
che della prima si può ormai far sempre più a meno, ma ciò vale non solo per lo Stato, ma anche per
l'impresa capitalistica tradizionale: la distinzione è solo di grado, sulla diversa legittimazione
riconosciuta al capo.
Gli anarco-capitalisti nostrani mostrano di non aver compreso nulla di ciò, dato che continuano ad
attribuire carattere discriminante a un elemento del tutto estrinseco e formalistico: quello del
carattere "pubblico" o "privato" dell'organizzazione.
Ma la distinzione è in sé insignificante (il
feudo è pubblico o privato?), una volta che a un'organizzazione "privata", come nel caso della città-
condominio, sia riconosciuto il diritto a esercitare il monopolio del potere decisionale sul territorio,
ossia la sovranità. Di più: in base alla concezione rothbardiana della proprietà, se la Penisola avesse
un proprietario, questi potrebbe dotarla essa esattamente delle stesse regole della Repubblica
Italiana: per i rothbardiani, questa sarebbe una situazione "libertaria", sol perché privata, anche se
del tutto indistinguibile da una corrispondente situazione "pubblica"; anzi, il proprietario sarebbe
legittimato a fare anche di peggio!
Non basta proprio essere contro lo "Stato moderno" per essere libertari. Anche nella cosiddetta
destra sociale emergono ormai correnti "antistataliste", in nome del primato della comunità; i nostri
anarco-capitalisti padani sono ormai su questa strada: essi parlano assai poco di mercato; la loro
attenzione è sempre più rivolta verso ogni sorta di organizzazione, anche autoritaria (si veda una
recente polemica sul carcere privato), alla sola condizione ch'essa sia privata, facendo pensare a una
strana combinazione di nazional-capitalismo e di anarco-collettivismo di destra.
Come ha notato Riccardo La Conca, essi si disinteressano completamente di come il mercato possa
realizzare quell'ordine spontaneo privo di autorità centrale di cui parlarono, in epoche diverse e da
posizioni apparentemente opposte, Kropotkin e Hayek.
Negli Stati Uniti le più evolute correnti di filosofia politica e analitica libertaria rifiutano l'estremo
giusnaturalismo rothbardiano, e affidano la definizione dei contenuti dei diritti di proprietà alle
libere interazioni di mercato, che studiano con gli strumenti della teoria dei giochi; si delineano così
i termini di un nuovo mainstream anarchico, nel quale potrebbero entro non molto trovarsi a proprio
agio tutti i non dogmatici, si tratti di free-market anarchists, ovvero di coloro i quali, provenendo
dall'anarchismo classico, hanno fatto propria l'idea della libera sperimentazione dei modelli
economici e giuridici: un centro anarchico, direi, che, ricongiungendosi con il gemello separato
liberale, recuperi la matrice individualista e liberista, sia pure nella versione del "mutualismo", di
tanto anarchismo classico. In questa direzione, è possibile che presto ci si imbatta in Josiah Warren
e nel suo Mercato a prezzo di costo. Ma questa è un'altra storia (Phase two).
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