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domenica 18 ottobre 2015

L'opinione di un Libertarian ("Il quadrato di Nicosia")

di Fabio Massimo Nicosia

Questo purtroppo lungo intervento fu pubblicato sul numero 257, ottobre 1999, di A - Rivista Anarchica con l'anòdino titolo "L'opinione di un libertarian", e segnò l'"ufficializzazione" del distacco dell'autore dall'ambiente anarco-capitalista di allora, sulla base di una critica agli orientamenti in voga in quel momento in quel movimento.
Si segnala in particolare la descrizione critica di un modello analitico, che successivamente fu definito ironicamente "Il quadrato di Nicosia".


Come i lettori di questa rivista sanno, opera da alcuni anni nel nostro Paese un piccolo movimento "anarco-capitalista". Dopo l'isolata meteora della rivista Claustrofobia (cinque numeri usciti alla fine degli anni '70, frutto dell'opera solitaria di Riccardo La Conca), attorno alla metà degli anni '90 ha incominciato a formarsi un gruppo di giovani intellettuali di diversa provenienza (ognuno la sua), che dichiarava di rifarsi al pensiero libertarian americano, e in particolare a quello del suo più sistematico interprete, l'economista e altro Murray Newton Rothbard.
All'interno del gruppo, che non è mai stato del tutto omogeneo, si è via via sviluppato un dibattito teorico di qualche interesse, e sono emerse differenze, che paiono difficilmente componibili, non solo di metodo, ma anche sui principi fondamentali e sulle preferenze sui diversi possibili stati di cose intermedi (quelli che qualcuno, marxisteggiando, chiama "i problemi della transizione"). 


La distinzione ha anche riflessi politici; non si deve dimenticare, infatti, che la componente del gruppo che più ha voluto e saputo organizzarsi si è riconosciuta a lungo nell'area leghista, addirittura partecipando con una propria lista alle cosiddette elezioni padane e ancor oggi considera il secessionismo il punto duro della propria strategia. In particolare, questo gruppo si è negli ultimi tempi caratterizzato per una serie di prese di posizione di segno francamente conservatore su una serie di temi come immigrazione, libera sessualità, e in genere libero uso del proprio corpo, entrando in evidente contraddizione con le proprie premesse libertarie, secondo le quali l'autoproprietà del corpo sarebbe il primo dei diritti di ciascun individuo. Combinando il secessionismo con la preferenza per il conservatorismo morale, emerge un quadro preoccupante, aggravato dalla valorizzazione del concetto tardo-rothbardiano di "Nazione per consenso". 

Rothbard, che per tutta la vita ha predicato il più radicale ed eccessivo degli individualismi metodologici, prima di morire scopre che l'uomo non nasce solo, ma in una famiglia, in un gruppo, con una lingua, una cultura, e chiama tutto questo "nazione"; per preservare la premessa libertaria, la nazione di Rothbard è "per consenso", ma il velo è fragile, e la contraddizione irrisolta. Per i nostri libertari-padanisti è un invito a nozze, lo strumento di cui essi hanno bisogno per conciliare l'originario individualismo radicale con quello che alla prova dei fatti si dimostra un comunitarismo su base etnica. 

Quel che allora occorre comprendere, anche per formulare un giudizio più preciso sul pensiero rothbardiano e sul segno dell'esperienza anarco-capitalista (almeno di quella della componente che a Rothbard si rifà), è se siamo di fronte a una contingente degenerazione in senso autoritario, ovvero se il vizio non stia alla radice stessa della teoria, sicché i suoi prodotti malati ne sono coerente implicazione e conseguenza. Innanzitutto una premessa di metodo: il gruppo in questione ha dimostrato di condividere un atteggiamento piuttosto dogmatico e fideistico, che identifica pressoché in toto l'idea libertaria con il pensiero di Rothbard, considerando come altrettante insidie "stataliste" da respingere a priori le gravi obiezioni alle quali quel pensiero si espone. 

Nel merito, la nozione fondamentale su cui si incentra - anche quando non evocata direttamente- il dibattito è quella di "proprietà", di "diritto naturale di proprietà". Secondo la concezione rothbardiana, il proprietario è sovrano assoluto non solo del proprio corpo, ma anche dei frutti del proprio lavoro. E qui emerge una prima difficoltà, perché conseguenze estreme vengono fondate su una premessa estremamente incerta: la nozione di lavoro. Per Rothbard, infatti, qualunque atto di occupazione in grado di dimostrare effettività è "lavoro" che legittima la proprietà, anche se in realtà si tratta di un atto di forza in sé improduttivo, come quello di recintare un terreno. Le conseguenze sono radicali, si diceva, come si ricava da un esempio. 

Immaginiamo che quattro proprietari rothbardiani abbiano ognuno un vertice in comune con l'altro, in modo da disegnare un quadrato completamente intercluso, che costituisca res nullius. Immaginiamo ancora che un paracadutista atterri in quel quadrato. In base alla teoria rothbardiana della proprietà, i quattro proprietari circostanti non hanno alcun obbligo nei confronti del paracadutista: nessuno, per Rothbard, può essere obbligato a un facere e omettere è sempre lecito (ad esempio, la madre che lascia morire di fame il proprio figlio esercita un proprio diritto naturale). 

D'altra parte, vien sottolineato, il primo carattere della proprietà è la facoltà di esclusione (ius excludendi alios), sicché il proprietario che lascia morire il paracadutista esercita un proprio diritto anche sotto tale profilo. Per contro, magra consolazione, il paracadutista diviene proprietario della res nullius da lui stesso occupata: la proprietà come gabbia nella quale gli altri ti rinchiudono. Se non ci piacciono le gabbie, c'è qualche cosa che non va in tale teoria, ed è il suo assolutismo e unilateralismo: si diviene proprietario legittimo indipendentemente dalle condizioni degli altri: ogni proprietario è autocertificato, e cionullameno il suo diritto di proprietà si impone sugli altri, costituendo unilateralmente in loro capo obblighi giuridici, che essi debbono rispettare pena sanzione, indipendentemente da qualunque consenso o considerazione di utilità: esattamente come nelle più vecchie dottrine giuridiche imperativiste. 

Esattamente come queste, del resto, la dottrina rothbardiana giustifica l'assolutismo del sovrano (in veste di proprietario) con formule di legittimazione sovrannaturali, nel nostro caso sulla "natura" e sul "lavoro", o meglio sul preteso diritto naturale, che deriverebbe da un bruto atto di occupazione originaria. Tutto ciò è molto new age, ma non sembra in grado di fondare una teoria della libertà, quanto piuttosto una del fondamento legittimo del potere e del comando. Il proprietario ha infatti pieno potere sul territorio che controlla, quindi anche sulle persone che lo occupano, con la sola esclusione della pena di morte. 

È ovvio che qui si tocca un punto critico, perché altro sarebbe se tale potere proprietario fosse soggetto alla condizione restrittiva della sua universalizzabilità. Capita invece che tra i padanisti rothbardiani vi sia chi teorizza esplicitamente che, se un solo uomo divenisse proprietario dell'intero mondo, egli potrebbe esercitare (non si sa come, ma le considerazioni di effettività sono respinte come spurie) il proprio ius excludendi alios nei confronti dell'umanità intera. 

Un argomento così contrario alle nostre intuizioni morali ci dice che la teoria rothbardiana della proprietà, se queste sono le sue conseguenze, deve essere respinta come non libertaria, anzi, come autoritaria. Non si direbbe, a questo punto, che vi sia differenza, se non nei presupposti di legittimazione, tra una relazione con un proprietario e una con uno Stato sovrano. Da qui infatti gli equivoci secessionisti: in fondo non c'è grande differenza tra uno Stato "piccolo" e una proprietà "grande": lo Stato piccolo va quindi comunque preferito, anche se illiberale, anche se le sue leggi discriminano omosessuali o tossicodipendenti (si veda la polemica sui "diritti degli Stati" negli U.S.A. contro Washington, pur se in ipotesi Washington garantisse più diritti individuali rispetto alla comunità locale). 

Se non v'è differenza sostanziale tra il potere sovrano del proprietario e quello dello Stato, in attesa di secessioni individuali prossime venture, da noi spetta alla Padania rappresentare in qualche modo, riconosciuto imperfetto, la proprietà dei singoli: anzitutto vietando l'immigrazione, considerata alla stregua di una violazione di un pur vago diritto di proprietà dei residenti "che pagano le tasse" sugli spazi pubblici. Si noti che, in realtà, un proprietario sarebbe perfettamente libero di escludere come di ammettere, ma lo Stato (padano), non si sa perché, dovrebbe farsi carico esclusivamente della preferenza escludente. Poco importa se, così facendo, i costi dell'esclusione vengono fatti ricadere su chi non condivide tale scelta, dato che il dogma antitributario vale solo per le prestazioni di assistenza, non anche per quelle di polizia. 

Qualunque teoria della proprietà che voglia essere libertaria ed evitare l'effetto-gabbia non può che muovere da una premessa comunista: occorre cioè assumere che, in origine, tutti hanno in comune la proprietà del mondo. Rothbard riconosce la moralità di tale ipotesi, ma la respinge come irrealistica in nome della separatezza degli individui e dell'impossibilità che ognuno possa possedere effettivamente l'intero mondo; egli denota però così limiti di cultura giuridica, dato che l'istituto (privatistico) della comunione ben consente di immaginare che ognuno possa essere proprietario del mondo pro quota. 

Ecco allora che il comunismo originario non impedisce affatto che le quote possano circolare e dar vita a un mercato, consentendo detenzioni individuali ed eventualmente legittimando la stessa divisione della comunione. Tale concezione (quella secondo cui il mondo è originariamente di proprietà comune di tutti gli uomini), è dominante nel cristianesimo primitivo, ma non è affatto estranea nemmeno alla tradizione del liberalismo classico. Non si spiega altrimenti, ad esempio, la "clausola di Locke", in base alla quale l'appropriazione è illegittima se ne derivino privazioni per gli altri. 

E si noti che Rothbard, il quale fondamentalmente recepisce la concezione lockeana della proprietà, ne respinge proprio la "clausola" di ragionevolezza, aprendo così la strada alla aberranti conseguenze indicate. Analoga impostazione si rinviene in tutti quei liberali classici (compreso Bastiat), per i quali il fondamento giustificativo della proprietà è nella produzione, dunque nell'utilità che, attraverso essa, si procura agli altri. Si veda ai tempi nostri la scuola dei property rights (Demsetz e Alchian), o James Buchanan, secondo i quali la proprietà scaturisce da un contratto, se si vuole da una convenzione, e non mai da un atto unilaterale di imperio accompagnato dall'enunciazione di un mistico diritto naturale. 

Ma se nasce dallo scambio, la proprietà ne reca i segni, non essendo pensabile che dall'accordo possa scaturire il dominio di uno degli scambisti sull'altro, o il peggioramento delle condizioni di uno di loro. Nella peggiore delle ipotesi, il non proprietario si sarà quantomeno garantito un diritto di passaggio e di circolazione, nonché, si direbbe, di accesso a una quota di risorse naturali. Ciò intacca allora il mito dello ius excludendi alios, che a questo punto appare più un frutto "legislativo" e imperativo, che non il prodotto di libere interazioni di mercato. 

Rothbard muove da una visione restrittiva della natura umana, imperniata attorno al concetto di lavoro stanziale, che attraverso, l'occupazione, fonda il diritto di proprietà. Il nomade non ha diritti sulla terra. Eppure l'uomo è anzitutto un animale dinamico, la sua azione implica movimento; nella sua natura non v'è domanda di proprietà fondiaria più di quanto non vi sia domanda di spazi aperti. Se perciò è lecito fondare diritti sulla natura umana, tra essi vi è sicuramente un qualche diritto di circolazione, che limita ab origine il diritto di proprietà altrui. 

I rothbardisti replicano alle critiche, dicendo che certe conseguenze paradossali sono improbabili, e che sono i meccanismi di mercato a porvi rimedio. Tuttavia la risposta è elusiva, perché quelle conseguenze sono comunque ritenute legittime, e anzi talora attivamente difese: come quando si sostiene che in una città privata un'assemblea condominiale potrebbe legittimamente deliberare l'esclusione degli omosessuali, violando così il principio della primazia della proprietà del corpo su quella dei beni, nonché allo stesso tempo contraddicendo l'avversione da sempre manifestata per le decisioni collettive e a maggioranza. 

Se poi è vero che il mercato fornisce il sistema di pesi e contrappesi in grado di prevenire le conseguenze indesiderate, vuol dire che la teoria libertaria della proprietà deve incorporare il mercato: vuol dire che la teoria rothbardiana non è autosufficiente, e che deve essere integrata da una componente che qualcuno definirebbe spregiativamente "utilitarista", ma che in realtà esprime una moralità superiore, in quanto prende in considerazione gli interessi legittimi di ciascun singolo individuo. Ad esempio, negando che sia diritto di qualcuno lasciar morire qualcun altro in conseguenza dell'esercizio di un proprio "diritto"; ad esempio, considerando che non si vede in forza di che i nuovi nati dovrebbero essere tenuti a rispettare un assetto proprietario, che non hanno concorso a determinare, se quell'assetto si dimostra per loro svantaggioso. 

Ma torniamo al mercato. Il contributo rilevante del movimento anarco-capitalista è l'aver individuato nella teoria del mercato, così come elaborata dall'economia classica e neo-classica (il tanto enfatizzato contributo "austriaco" è sotto tale profilo del tutto riconducibile alla tradizione neo-classica), la meta-istituzione universale dell'anarchia possibile. Se c'è un sistema che consente agli uomini di cooperare in assenza di autorità centrale, questo è il mercato, ossia la rete delle relazioni di scambio tra individui di ogni parte del globo, senza vincoli territoriali. 

L'opposto concettuale del mercato è l'organizzazione, che infatti viene invocata ogni qual volta ci troveremmo innanzi a un "fallimento del mercato". Nel suo famoso saggio "La natura dell'impresa", l'economista Ronald Coase sostenne che l'organizzazione aziendale, attribuendo a qualcuno il potere di comando, consente di ridurre i costi di transazione, ai quali si andrebbe incontro ove alle decisioni si sostituissero libere interazioni di mercato. L'esperienza ha tuttavia dimostrato come spesso le organizzazioni, produttive o no, aggravino i costi di transazione, piuttosto che ridurli, semplicemente trasferendo la conflittualità all'interno dell'organizzazione, e anzi enfatizzandola in una lotta per il potere. 

L'alternativa è quindi tra organizzazione, che, come il realismo politico insegna, è sempre fonte di gerarchia, e mercato, inteso come ambiente delle relazioni paritarie. Lo sviluppo tecnologico mostra che della prima si può ormai far sempre più a meno, ma ciò vale non solo per lo Stato, ma anche per l'impresa capitalistica tradizionale: la distinzione è solo di grado, sulla diversa legittimazione riconosciuta al capo. Gli anarco-capitalisti nostrani mostrano di non aver compreso nulla di ciò, dato che continuano ad attribuire carattere discriminante a un elemento del tutto estrinseco e formalistico: quello del carattere "pubblico" o "privato" dell'organizzazione. 

Ma la distinzione è in sé insignificante (il feudo è pubblico o privato?), una volta che a un'organizzazione "privata", come nel caso della città- condominio, sia riconosciuto il diritto a esercitare il monopolio del potere decisionale sul territorio, ossia la sovranità. Di più: in base alla concezione rothbardiana della proprietà, se la Penisola avesse un proprietario, questi potrebbe dotarla essa esattamente delle stesse regole della Repubblica Italiana: per i rothbardiani, questa sarebbe una situazione "libertaria", sol perché privata, anche se del tutto indistinguibile da una corrispondente situazione "pubblica"; anzi, il proprietario sarebbe legittimato a fare anche di peggio! 

Non basta proprio essere contro lo "Stato moderno" per essere libertari. Anche nella cosiddetta destra sociale emergono ormai correnti "antistataliste", in nome del primato della comunità; i nostri anarco-capitalisti padani sono ormai su questa strada: essi parlano assai poco di mercato; la loro attenzione è sempre più rivolta verso ogni sorta di organizzazione, anche autoritaria (si veda una recente polemica sul carcere privato), alla sola condizione ch'essa sia privata, facendo pensare a una strana combinazione di nazional-capitalismo e di anarco-collettivismo di destra. Come ha notato Riccardo La Conca, essi si disinteressano completamente di come il mercato possa realizzare quell'ordine spontaneo privo di autorità centrale di cui parlarono, in epoche diverse e da posizioni apparentemente opposte, Kropotkin e Hayek.

Negli Stati Uniti le più evolute correnti di filosofia politica e analitica libertaria rifiutano l'estremo giusnaturalismo rothbardiano, e affidano la definizione dei contenuti dei diritti di proprietà alle libere interazioni di mercato, che studiano con gli strumenti della teoria dei giochi; si delineano così i termini di un nuovo mainstream anarchico, nel quale potrebbero entro non molto trovarsi a proprio agio tutti i non dogmatici, si tratti di free-market anarchists, ovvero di coloro i quali, provenendo dall'anarchismo classico, hanno fatto propria l'idea della libera sperimentazione dei modelli economici e giuridici: un centro anarchico, direi, che, ricongiungendosi con il gemello separato liberale, recuperi la matrice individualista e liberista, sia pure nella versione del "mutualismo", di tanto anarchismo classico. In questa direzione, è possibile che presto ci si imbatta in Josiah Warren e nel suo Mercato a prezzo di costo. Ma questa è un'altra storia (Phase two). 

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