di Fabio Massimo Nicosia
E’ facile constatare che la “società radicale” della quale Gianni Baget Bozzo parlava quarant’anni fa è più viva che mai.
Nonostante l’alimentata popolarità di Papa Francesco, nessuno dubita che la nostra cultura sia ormai pressoché interamente secolarizzata, dato che quella popolarità riguarda più forse le questioni di carattere socio-economico –posizioni che peraltro non richiedono assunzioni dirette di responsabilità, e che quindi costano molto poco a chi le assume- piuttosto che etico-religioso.
Tutti sanno che questa secolarizzazione è iniziata, da noi buoni ultimi, negli anni ’60, con la rivoluzione sessuale e dei costumi, che ha attraversato il ’68, per prendere nuova forma, dopo gli anni ’70 delle riforme sui diritti civili (divorzio e aborto), attraverso lo spezzare del pane quotidiano della fica televisiva berlusconiana e di massa (e non solo berlusconiana –facciamo finta-: si pensi a “Colpo Grosso” con Umberto Smaila, andato in onda con grande successo dagli studi di un circuito minore) a partire dagli anni ‘80.
Oggi la situazione appare stabilizzata, ma mentre per comprare un “giornale di donne nude”, per dirla con Elio & le Storie Tese, noi dodicenni del 1970 dovevamo andare di nascosto e vergognosi in edicola, per nascondere poi quei sacri testi attorno allo stinco e sotto la calza, o sotto la cintola e la maglietta, corre diffusa voce che gli adolescenti di oggi si ammazzino di seghe innanzi a youporn, il quale, devotamente, collega in ogni casa di civile abitazione materiale visivo e virtuale ben più interessante, di quello allora a nostra povera disposizione.
E si tratta di materiale perfettamente legittimo ai sensi di vigente legislazione, dato che quest’ultima intende vietare solo la pedo-pornografia, con ciò ammettendo quindi la pornografia ritraente persone maggiorenni, potendo così comunicare ai giovani d’oggi situazioni assai fantasiose, che noi meschini di allora non potevamo neanche immaginare.
Tutto ciò è certo parte saliente della modernizzazione. Altri temi? E’ troppo recente la sentenza arcobaleno della Corte Suprema USA, per la quale il matrimonio omosessuale o egualitario si fonda sull’“eguale dignità agli occhi della legge” di tutti gl’individui. Ecco quindi che con poco più di una, fondamentale, “battuta”, la Corte ha liquidato tremila anni di storia, dalle Sacre Scritture a oggi! Quando ancora pochi lustri fa l’omosessuale era pubblicamente dileggiato, ad esempio nelle caricature della cinematografia di serie B (Lando Buzzanca, Lino Banfi, etc.).
E poi l’antiproibizionismo almeno sulla cannabis. Anche qui l’America della “guerra alla droga”, ma anche patria della controcultura, sta facendo, preceduta da alcune avanguardie (Olanda, Portogallo, Uruguay, etc.) da apripista nella modifica della politica mondiale sulle droghe, non solo con le varie innovazioni legislative da parte dei singoli stati membri, ma anche attraverso coraggiose prese di posizione dello stesso Presidente Obama. E anche a tale proposito ci permettiamo di attendere una pronuncia della Corte, magari in nome della privacy, come fece per aborto, omosessualità e pornografia, con alterne fortune nel caso di quest’ultima.
Ora, se tutto ciò sembra indicare un immancabile cammino verso la “laicità” del modo di intendere il nostro sistema di vita, si potrebbe pensare, venendo alle cose piccole e nostrane, che il Partito Radicale, che ha incarnato da noi la quintessenza della “laicità”, sia al culmine della popolarità e sulla cresta dell’onda. Invece, come tutti sanno, così non è, e una ragione certo ci sarà.
E’ troppo facile dare la colpa di tale situazione all’invecchiamento di Marco Pannella, il quale, avendo fatto per decenni il vuoto di altre potenziali élites concorrenti attorno a lui, ora si trova solo e con pochi troppo deboli aiuti. E infatti non lo faremo, almeno non in questi termini liquidatori, ma affrontando proprio in generale la vision di Pannella, al di là di qualsiasi pregiudizio ad hominem.
Diciamo anzitutto che il brand “Radicale” è bellissimo e attualissimo, ma Pannella ha sempre fatto di tutto per depotenziarlo, tranne, guarda caso, con riferimento alla nota Radio di cui è sovrano assoluto: si è inventato, di volta in volta e negli anni: Lista Antiproibizionista, Verdi Arcobaleno, Lista Pannella e Club Pannella per il Partito Democratico, Riformatori, Lista Bonino, l’abortita Lista Coscioni, Amnistia Giustizia e Libertà, e sicuramente abbiamo dimenticato qualcosa.
Le nuove generazioni sono ampiamente composte da “laico-radicali” (sicché Pannella ha parlato acutamente a tale proposito di un’”egemonia culturale radicale”), ma nemmeno sanno, se non ascoltano la Radio, che da 50 anni esiste in Italia un partito acutamente laico-radicale, a parte la riserve che si possono nutrire nei confronti della recente vicenda della cotta del leader -non si capisce bene quanto ricambiata- per il Papa, oltre che per il Dalai Lama.
Siamo tutti “radicali”, e io non conosco nessuno che non abbia almeno una volta votato nella vita radicale, persino mia zia Graziella e mio zio Bernardo: una volta a Carini, in una tavolata di dodici avevano votato radicale in undici (io non avevo ancora l’età). Circola in proposito una battuta, che gl’italiani si dividono in due categorie, i radicali, che sono l’uno per cento, e gli ex radicali, che sono il restante 99%.
A tale esito di arroccamento su sé stessi corrisponde anche la “politica finanziaria” del Partito e della relativa “galassia”: la tessera costa centinaia di euro! Ovvio che si tratti di una scelta per allontanare le persone, non per andare a caccia di consensi. Non è dietrologia affermare che si sia trattato, a suo tempo, di una scelta deliberata.
Alla fine degli anni ’70, quando la tessera costava pochissimo (anche se sempre di più che nei partiti tradizionali), attorno ai radicali si erano coagulate migliaia di persone, le quali chiedevano di contare di più all’interno del partito, e già contestavano apertamente la leadership carismatica di Pannella. La risposta del quale fu, dopo aver perso incredibilmente un congresso o due, di appellare costoro quali “lanciatori di merda” e sostanzialmente allontanandoli, anche con la tecnica della “leva fiscale”, che sottraeva base di massa a quel movimento di contestazione interna. Qualcuno disse che, accanto alla P2, avemmo allora il PR2.
L’ideale sarebbe invece che, in un partito libertario, non vi fossero tessere, ma solo “finanziamenti”, sicché “tessera” non sarebbe altro che la ricevuta del finanziamento effettuato. Ma se così fosse, il finanziamento non potendo che essere volontario, da un centesimo l’anno a un miliardo sarebbero altrettante “tessere”, e gli iscritti e gli introiti sarebbero molti di più di quanti non siano ora, sempre che lo si voglia, il che però non si direbbe.
I voti poi sono spariti. All’ultima occasione di presentazione, la lista Amnistia Giustizia e Libertà ha preso lo 0,0, se pure in molti posti non era presente. Certo, cambiando brand ogni minuto, queste sono le conseguenze.
Eppure tante sarebbero le aspettative potenziali verso i radicali, se il mondo è quello già descritto. Si vede proprio che allora i radicali -al di là del contenuto specifico delle battaglie che perseguono, che in sé possono essere criticate per questo o quell’aspetto (lo abbiamo fatto con riferimento all’impostazione che si è data alla battaglia sulla giustizia), ma non meritano particolari riserve, e anzi sono quanto di meno peggio e anche di meglio circoli oggi nel panorama politico- non riescono più a comunicare, a risultare in sintonia con il nostro mondo contemporaneo.
Conosciamo l’antifona: i radicali sono estromessi dai mezzi di telecomunicazione di massa, ed è vero. Tuttavia molti possono ascoltare Radio Radicale, quindi, anche se non vediamo molto Pannella in Tv, sappiamo anche troppo bene come i radicali la pensino, o, per meglio dire, si esprimano.
E qui emergono le prime difficoltà. Anzitutto un eccesso di loyalty istituzionale, dovuta anche alle necessità diplomatiche dell’emittente radiofonica, costretta a rinunciare alla pubblicità dalla concessione del servizio pubblico: un eccesso di inerenza al mondo del Palazzo. Parrà paradossale, ma il partito che per primo ha denunciato le malefatte della partitocrazia, come già la chiamò Giuseppe Maranini nel suo discorso all'inaugurazione dell'Anno accademico 1949/50 dell'Ateneo fiorentino, vede oggi un Pannella fuori di sé dalla gioia per il fatto di potersi permettere di dare del “tu” a Mattarella: un bel “chissenefrega” non ce lo vogliamo mettere?
Alle giovani generazioni un atto del genere non comunica nulla, anzi, ai loro occhi è controproducente, perché loro non sanno nulla del fatto che fu Pannella a suggerire a Pasolini la metafora del “Palazzo”, sicché per loro Pannella diviene solo uno dei tanti del “Palazzo”. Gli elementi psicologici dell’anziano leader vanno assolutamente rispettati, ma costituiscono fatto suo personale, utile fin tanto che non si riveli controproducente per la causa comune.
D’altra parte, anche insistere oggi, all’alba inoltrata del 2015, sulle possenze della “partitocrazia” fa anche un pochino sorridere, perché se la partitocrazia è Renzi e dintorni, non sono certo Renzi e dintorni a governare il mondo, l’Europa, forse nemmeno l’Italia.
Alla stessa vecchia cultura, che appare poco comunicativa nei confronti delle generazioni più giovani abituate alle informalità di Facebook, appartiene poi l’insistenza sul concetto di “Stato di diritto”, del ridurre ogni problema a problema di legalità. Per ogni questione di rilevanza sociale, economica, etc., secondo Pannella c’è sempre e comunque da qualche parte o dietro qualche angolo “violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere”, come direbbe un avvocato di diritto amministrativo.
Il che è certamente vero, ma è ampiamente riduttivo, perché tutti sanno che i principi delle dichiarazioni dei diritti degli individui, delle costituzioni e simili sono pressoché perfetti, sicché a qualsiasi disfunzione corrisponde sicuramente da qualche parte la violazione di un qualche supremo principio. Quali siano poi la cause strutturali di quei problemi, però, non viene indagato, e tutto rimane nell’indeterminazione.
Ma è proprio il continuo invocare lo “Stato”, sia pure “di diritto”, che ha poco appeal nei confronti dei ceti più dinamici, che chiedono meno Stato e più libertà. Da quanto tempo Pannella, nelle sue non sempre brillanti conversazioni radiofoniche settimanali, non pronuncia la parola “libertà”? Comunque, qual è il rapporto percentuale tra le volte in cui pronuncia la locuzione “Stato di diritto” e quelle in cui pronuncia il sintagma “libertà”? C’è da mettersi le mani nei capelli, per chi ce li ha.
Quando saprà declinare, o riprenderà a farlo, il linguaggio della e delle libertà, vedrete che Pannella andrà in televisione più spesso (naturalmente in registrata, in modo da fare un po’ di editing). Pannella “bucò il video” nel 1975 da Pasquale Nonno, come disse Umberto Eco, proprio perché allora questo linguaggio lo maneggiava alla perfezione, ed era la prima volta che in televisione le parole “aborto” e “omosessualità” o risuonavano, o venivano pronunciate al di fuori dalla cronaca nera (forse l’aborto neanche in quella).
Alla fissazione per il diritto e la legge, corrisponde ad esempio avere impostato la campagna antiproibizionista in termini di “legalizzazione”, piuttosto che di “liberalizzazione”.
Eppure “liberalizzazione” non è una parolaccia, se la usava persino Sua Eccellenza l’on. Bersani (che oggi sarebbe la sinistra del Pd), invocandola, da Ministro, per le licenze commerciali. Le parole poi hanno un suono, il cui impatto non va sottovalutato: basti confrontare “LEGALIZZAZIONE” con liberalizzazione, senza enfasi, come cosa naturale e leggera: Pannella è entrato in un cortocircuito mentale, per cui ha ormai la testa piena di “legge”, “legge”, “legge”, “legge”.
V’è poi una certa indeterminatezza su quale sia la politica economica del partito. Qui il discorso si farebbe lungo e difficile, e non ce n’è lo spazio, dato che i radicali passarono da un generico “socialismo libertario autogestionario” negli anni ’70 (mentre il PSI quel socialismo lo stava studiando davvero per merito di Luciano Pellicani) al liberismo spinto alla Antonio Martino e quasi anarco-capitalista a partire dagli inizi degli anni ’90. Il tutto in assenza della benché minima elaborazione collettiva (perché, individuale sì?) del senso profondo di un siffatto passaggio.
Oggi diremmo che sarebbe il caso di ricercare una sintesi tra i due momenti, diciamo un liberismo diffuso e autogestito (tutti autonomi e nessun dipendente), e l’antiproibizionismo dell’autocoltivazione ( e perché non della coltivazione?) potrebbe esserne il volano; a tacere delle correnti prosumeriste, le quali riflettono sulla centralità del consumatore nel produrre gratuitamente servizi, come ricorda sempre Federico Tortorelli.
In tale quadro, la ripresa di una politica anti-tasse potrebbe avere un suo nuovo profondo significato, contendendola alle letture demagogiche alla Salvini, il quale parla ogni tanto di flat-tax, ma ogni nano-secondo tuona contro la legge Fornero, non spiegandoci come intende risolvere la contraddizione. Fermo restando che il problema di garantire un voucher di pane quotidiano a tutti oggi si impone, e del resto lo riconosceva anche il radicale liberista Ernesto Rossi: il che sarebbe oggi consentito valorizzando l’imponente patrimonio di beni demaniali, archeologici, culturali, etc., in possesso degli Stati.
I radicali potrebbero però tornare a scandalizzare, affermando che battersi tanto, perché le false partite IVA siano assunte come lavoratori dipendenti, potrebbe rivelarsi alla lunga controproducente e non una conquista, perché le partite IVA possono evadere o eludere, mentre il lavoratore dipendente no. Meglio un mercato di imprenditoria diffusa, che un esercito di lavoratori dipendenti inquadrati, questo almeno nella poetica libertaria.
V’è spazio persino per immaginare un ecologismo libertario, di cui si sente molto la mancanza: l’ultimo libro di Naomi Klein è una continua denuncia dei danni del “capitalismo”. Tuttavia la feconda e faconda autrice è costretta ad ammettere: a) che il maggiore inquinatore del Pianeta è il Pentagono; b) che il governo americano conferisce ogni anno trilioni di dollari di sussidi all’industria petrolifera. Dal che si ricava che i maggiori inquinatori sono gli Stati, e non i mercati, come vien sostenuto.
V’è poi tutto il filone della musica. Del resto, se abbiamo parlato di sesso e di droga, perché non parlare di rock’n’roll, in senso lato, naturalmente, dato che il rock’n’roll non ha più nulla da dire. Intendiamo sostenere che va ripresa la cultura della controcultura, che tanti spunti può fornire nel comprendere la società della rete e dell’automazione.
E poi, se proprio si vuole parlare di diritto e di Stato di diritto, chiediamoci quali trasformazioni questo abbia subito appunto con internet, in tempi in cui un’e-mail, o una chat su facebook, di fatto sostituisce la funzione notarile. Un bel titolo per un prossimo convegno radicale? “La certezza del diritto ai tempi della rete”.
D’altra parte, il concetto di “legalità” viene sovente frainteso. Secondo la tradizione anglo-sassone di rule of law, il principio di legalità serve a imbrigliare il potere, non i cittadini: viceversa si cade nello Staatsrecht tedesco, che è tutt’altra cosa, ossia l’imposizione unilaterale di norme “eguali per tutti”, financo la più stupida.
Insomma, i temi non mancano certo ai radicali (a quelli ricordati si aggiunga quella fondamentale su eutanasia e fine vita, molto sentita, ma che incontra la completa sordità dei partiti parlamentari: proporremmo un referendum abrogativo dell’art. 579 c.p., concentrandovi la potenza di fuoco della radio): è il modo di comunicarli che funziona poco. Un profondo rinnovamento dell’approccio renderebbe quei temi tutti molto probabilmente più forti.
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