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domenica 28 giugno 2015

Qualche spunto sull'illegalismo nonviolento

di Fabio Massimo Nicosia

Come è noto, i radicali italiani praticano da sempre quella che si chiama la disobbedienza civile. Le radici di questo approccio, di questo metodo di lotta politica, vanno probabilmente ravvisate nell’omonimo saggio di Henry David Thoreau, il quale, mentre sperimentava la propria utopia individualista nei boschi di Walden, si rifiutò di pagare una tassa militarista in quanto ingiusta e si ritrovò in guardina, almeno sin quando i suoi parenti non finirono con il pagare la tassa per lui. Interessante questa matrice anti-tributaria della disobbedienza civile, ma tutti sanno anche che Gandhi
dichiarò esplicitamente che il proprio modello era incarnato da Thoreau, e che entrambi erano dell’ordine di idee di accettare “socraticamente” le conseguenze delle proprie azioni.
Nella pratica dei radicali italiani, da Marco Pannella in poi, la disobbedienza civile viene intesa come strumento di lotta politica nonviolenta, finalizzata al mutamento di discipline normative che si ritengono ingiuste o, più esattamente, in contrasto con lo “stato di diritto”, ossia con norme giuridiche di rango gerarchico superiore.
In realtà la distinzione a volte sfugge, perché uno sciopero della fame volto ad ottenere un’amnistia non è sempre chiaro quale norma di rango superiore stia invocando, così come non lo è la disobbedienza civile di Rita Bernardini, consistente nel detenere e coltivare decine di piante di cannabis nel balcone di casa.
Non stiamo contestando certo, si badi, l’eccellenza di queste iniziative, solo non ne comprendiamo appieno il fondamento teorico, dato che non capiamo se si stia contestando una legge in quanto “ingiusta”, o in quanto “illegittima”, pur sapendo che, nell’attuale sistema giuridico, contrassegnato dalla vigenza di principi generali superiori di emanazione e derivazione vagamente “giusnaturalistica”, spesso “ingiusto” e “illegittimo” sono destinati a confluire, coincidere e sovrapporsi.
Se queste sono considerazioni puramente teoriche, c’è però qualcosa che non amiamo in sé di questa “disobbedienza civile”, alla quale in passato abbiamo contrapposto la nozione di disobbedienza incivile.
E’ stato rilevato in psicologia che, per le persone comuni, la legge è come una vecchia zia, che si sopporta malvolentieri,  ma alla quale non si conferisce soverchia importanza.  Sono invece due le categorie che conoscono alla perfezione la legge, i delinquenti e i grafomani lamentosi, che si appellano costantemente a essa quale fonte del bene e del giusto. Il disobbediente civile rischia talora di rassomigliare di volta in volta a quella vecchia zia, o a siffatto carattere lamentoso, e l’effetto non è sempre bellissimo.
Quanto quindi la disobbedienza civile rischia talora di condurre al lamento, mistico nella migliore delle ipotesi,  tanto il disobbediente incivile è cinico ed egoista, non ha di mira la “riforma” di alcunché, e semplicemente ignora la legge quando la legge gli si pone tra le scatole, falsificatore attivo e potenziale della pretesa di supremazia della legge stupida e ottusa: l’evasore fiscale, l’automobilista indisciplinato, il maschio maschilista, e tutti gli altri “eroi” dei nostri tempi politicamente corretti.
A tale nozione di disobbedienza incivile abbiamo poi fatto seguire un’altra, quella di illegalismo nonviolento.  Qui la cosa è ancora diversa.  Mentre il disobbediente incivile è un brutale e un irrequieto, l’illegalista nonviolento si muove ai margini della legalità, ma senza afflati mistici, muovendosi come si muove un operatore del  mercato, ed eventualmente dello stesso mercato politico, con la cautela che è propria di un siffatto operatore consapevole.
Se il disobbediente incivile corre a 200 all’ora sull’autostrada, l’illegalista nonviolento trova la sua migliore manifestazione nel mercato grigio dei proibizionismi. Egli sa di muoversi ai limiti della legalità, ma impara a conoscere quel mercato, impara a trattarlo da mercato  a tutti gli effetti, sa far valere i suoi diritti di consumatore,  e sa che all’occorrenza gli argomenti propri della disobbedienza civile potrebbero tornargli comodi e utili. Ma non si muove con il proposito di abolire quel mercato, piuttosto ha in animo che da nero e grigio si trasformi in bianco.
Però, nel concreto, la sua azione non si fonda sull'obiettivo di modificare la legge con la propria azione (semmai questo farà in altra veste), ma di agire quasi come se questa non esistesse, eludendola, e non sente il continuo bisogno di “appellarsi”, di “invocare” principi più o meno alti a sostegno della propria azione quotidiana. 
Sfrutta tutti i margini di libertà che la situazione attuale gli consente, imparando a conoscere il mondo in tutte le sue manifestazioni associative e istituzionali, formali e informali, fluide, colloidali o cristallizzate che siano.
Questo vale anche nei rapporti con la politica: una delle conseguenze dell’approccio “nonviolenza-disobbedienza civile” è che, poi, i rapporti con la politica diventano molto formali. Ci si propone come obiettivo primo la modifica di una norma di legge, e tutto, nel contatto con la politica, diventa sempre, solo e comunque la richiesta della modifica di quella norma di legge.
E invece la politica va trattata da mercato nero e grigio quale in effetti è (la questione presentazione di liste/voto/non voto diventa quasi irrilevante) e quel che importa è trarre dal rapporto con essa il massimo che si può ottenere, che non è necessariamente la modifica di una legge, o proprio di quella che avevamo in mente noi all'inizio, ovviamente.
Il gioco può farsi invece più arioso, in vista di obiettivi più ampi, più articolati, nei quali la modifica normativa è solo un aspetto, e solo qualche volta il più importante. Tanto più quando gli obiettivi che ci si propone sono a lunga scadenza, con la conseguenza che, fin quando non si raggiunga l’obiettivo preliminare e primario, “la madre di tutte le battaglie”, si resta con un nulla di fatto e con un pugno di mosche in mano.


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