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domenica 28 giugno 2015

Luigi Fabbri tra comunismo anarchico e libera sperimentazione



di Pietro Adamo

In genere si usa la locuzione "crisi dell’anarchismo" per indicare da un lato il processo di marginalizzazione politica delle istanze anarchiche che ha avuto luogo, con tempi e modalità diverse, nei primi decenni del secolo in Italia, Francia, Stati Uniti, Spagna, e così via, e dall’altro i tentativi di ripensare - di "revisionare", si diceva all’epoca - i capisaldi del pensiero anarchico nello sforzo di restituirgli pregnanza e capacità di incidere sulla vita politica e intellettuale. Alcuni di questi "revisionismi" giungevano, sull’onda del successo bolscevico o sulla spinta dello scetticismo nei progetti di rivoluzione popolare, sino alla proposta di adottare metodi e fini autoritari. Altri pensatori si concentrarono invece su una sorta di rielaborazione interna, di riflessione e di ricatalogazione: nel 1924 Malatesta di dissociava da ogni revisionismo autoritario spiegando che, lungi dal "voler rinunziare, in pratica, se non in teoria, alle nostre concezioni rigorosamente anarchiche", il suo scopo era semplicemente quello di concentrarsi sullo "sviluppo delle idee" e sulla "loro applicazione alle contingenze attuali". Il più giovane ed entusiasta Berneri dichiarava invece di non temere (in un articolo restato però inedito) "quella parola revisionismo che ci viene gettata contro dalla scandalizzata ortodossia, ché il verbo dei maestri è da conoscersi e da intendersi".
Molti i protagonisti di questo percorso e molte le differenti strategie approntate in tale frangente: da Nettlau a Rocker, da Labadie alla De Cleyre, da Armand allo stesso Berneri. Il principale punto di riferimento di questo processo mi sembra però essere proprio il Malatesta degli anni venti, che, prima dalle pagine di Umanità nova e di Pensiero e Volontà, poi da quelle della stampa libertaria che agiva all’estero, rilanciò un’articolata riflessione sulla natura e gli scopi dell’anarchismo. Questa si svolse lungo tre direttrici. Gli esiti totalitari del bolscevismo, di cui Malatesta fu uno dei primi a prendere atto, gli suggerirono che nella meccanica rivoluzionaria incentrata sul "terrore" si trovava un raccordo tra violenza e dogmatismo irriconciliabile con la concezione anarchica della libertà; la marginalizzazione apparentemente irreversibile degli anarchici lo condusse a pensare la transizione rivoluzionaria in termini nuovi, più come prodromo alla società libera che come compimento definitivo di un processo storico inevitabile; infine, questi due elementi lo portarono a una nuova concettualizzazione del comunismo, non come sbocco economico obbligato del raggiungimento dell’anarchia, ma come scelta volontaria all’interno di una pluralità di opzioni, concetto questo che veniva all’epoca espresso con il termine ‘libera sperimentazione’. Ciò che Malatesta aveva compreso, sulla spinta delle nuove esperienze suggerite dalla rivoluzione bolscevica, era che l’imposizione generalizzata della soluzione comunista avrebbe di per sé implicato la negazione del principio di libertà che era fondamento del pensiero anarchico; al contrario, la libera sperimentazione - ovvero la possibilità per ognuno di sperimentare ogni sistema economico concepibile - avrebbe forse condotto anch’essa alla vittoria del comunismo libertario, ma configurandola come frutto di un’evoluzione libera e spontanea.
Fabbri era tutt’altro che uno spirito ortodosso, anche se era privo della verve iconoclasta di un Merlino o di un Berneri. Tuttavia le sue analisi erano contraddistinte da grande lucidità e da grande capacità di penetrazione. Si pensi alla sua analisi del terrorismo bombarolo, di recente pubblicata in italiano con il titolo Influenze borghesi sull’anarchismo. Identificando nell’ethos borghese una delle matrici del (cosiddetto) individualismo anarchico, Fabbri ne scorgeva già nel 1906 la contraddizione con l’anarchismo: "Secondo me gli anarchici che danno un’importanza soverchia ai fatti di rivolta, sono forse dei rivoluzionari e degli anarchici, - ma sono molto più rivoluzionari che anarchici. Quanti anarchici ho conosciuto, che si curano poco o nulla dell’idea anarchica, e magari non si curano neppur di capirla; ma sono ardenti rivoluzionari e la loro critica e la loro propaganda è rivolta solo al fine rivoluzionario della ribellione per la ribellione!"
Come tanti altri, per Fabbri il vero punto di svolta fu costituito dalla rivoluzione sovietica. Nel suo Dittatura e rivoluzione la disamina del totalitarismo bolscevico comincia ad assumere i tratti di una critica più generale non solo del marxismo (cosa, ovviamente, tutt’altro che rara tra gli anarchici), ma anche dei presupposti culturali del materialismo storico (la centralità della lotta di classe, il verticismo rivoluzionario, e così via). Già nel libro Fabbri teneva presente l’approccio sperimentalista al problema della transizione, accennando all’antipatia bolscevica per la "libera iniziativa" propugnata dagli anarchici e affermando che tra i principi più importanti da proteggere vi era quello per cui "gli uni non debbano per forza subire una forma di organizzazione imposta dagli altri". Tuttavia la prospettiva diDittatura e rivoluzione era indiscutibilmente comunista, nel senso che era dato per scontato che questo sarebbe stato l’esito - giusto e giustificato - della rivoluzione: "tutti sanno", scrisse Fabbri, "che gli anarchici sono, sul terreno economico, comunisti".
Gli anni venti, con la progressiva affermazione delle ideologie totalitarie in Russia e Italia, quasi costrinsero Fabbri ad affinare sempre più la propria prospettiva, abbandonando in particolare l’impostazione rigidamente classista della sua analisi. Nel 1922 pubblicò 
Gli anni venti, con la progressiva affermazione delle ideologie totalitarie in Russia e Italia, quasi costrinsero Fabbri ad affinare sempre più la propria prospettiva, abbandonando in particolare l’impostazione rigidamente classista della sua analisi. Nel 1922 pubblicò La controrivoluzione preventiva, che Renzo De Felice ha potuto permettersi di citare, non del tutto a sproposito, come esempio classico della lettura marxista del fascismo. Ancora nel 1924 entrò in polemica con Malatesta, difendendo in qualche modo la positività storica dell’esperimento sovietico, pur enucleandone, nel contempo, la natura totalitaria: "La rivoluzione russa resta, malgrado tutto, ai nostri occhi il fatto storico più grande ed ancora più promettente per l’avvenire di questi ultimi cinquant’anni". In questo periodo l’apologia della libera sperimentazione cominciò a configurarsi come uno dei metodi per confutare le pretese autoritarie dei bolscevichi, fermo restando però il "punto di vista sociale e comunista" (insieme al mito dell’aumento della "produzione"): "Gli anarchici non hanno, sul modo migliore di gestire materialmente e tecnicamente la produzione", scrisse nella sua replica al noto libello antianarchico di Bucharin, "alcun preconcetto né apriorismo assoluto, e si rimettono a ciò che l’esperienza, in seno a una società libera consiglierà e a ciò che le circostanze imporranno. L’importante è che, qualunque sia il tipo di produzione adottato, lo sia per libera volontà dei medesimi, e non sia possibile la sua imposizione, né alcuna forma di sfruttamento del lavoro altrui. […] Né gli anarchici escludono a priori alcuna soluzione pratica; e ammettono che vi possano essere anche varie soluzioni diverse e contemporanee, in seguito all’esperimentazione delle quali i lavoratori potran trovare con cognizione di causa la via migliore per produrre sempre meglio e di più".
Dopo il successo fascista e la scelta dell’esilio, l’analisi del totalitarismo di Fabbri assunse fattezze più decise, mentre la sua concezione della libera sperimentazione si fece più positiva. Nel 1926 scrisse un articolo per una rivista russa che restò inedito. Qui negava che nella teoria anarchica si prevedesse l’imposizione della "espropriazione comunista ai piccoli proprietari" e spiegava che, sebbene il programma dell’Unione anarchica italiana del 1920 proclamasse l’"abolizione della proprietà privata della terra", il documento "affermava implicitamente la tolleranza verso la piccola proprietà non sfruttante il lavoro salariato, rivendicando la libertà dei produttori di non far parte delle associazioni di produzione".
Dopo il successo fascista e la scelta dell’esilio, l’analisi del totalitarismo di Fabbri assunse fattezze più decise, mentre la sua concezione della libera sperimentazione si fece più positiva. Nel 1926 scrisse un articolo per una rivista russa che restò inedito. Qui negava che nella teoria anarchica si prevedesse l’imposizione della "espropriazione comunista ai piccoli proprietari" e spiegava che, sebbene il programma dell’Unione anarchica italiana del 1920 proclamasse l’"abolizione della proprietà privata della terra", il documento "affermava implicitamente la tolleranza verso la piccola proprietà non sfruttante il lavoro salariato, rivendicando la libertà dei produttori di non far parte delle associazioni di produzione".
A mio parere la riflessione di Fabbri giunse a un punto fermo con il saggio "Libera sperimentazione", apparso su Studi sociali nel gennaio 1935. Molti elementi del suo discorso impliciti negli scritti precedenti divennero espliciti. Molta carne viene messa al fuoco: l’ammissione che il dogmatismo anarchico costituisce una "tendenza mentale al totalitarismo"; lo stretto legame istituito tra la piena maturazione del concetto della sperimentazione integrale e l’esperienza totalitaria; la percezione dell’evoluzione in senso totalitario del mondo capitalista; e altro ancora. Certo, la libera sperimentazione è intesa in senso malatestiano: da un lato come esigenza irrinunciabile, dall’altro come probabile prodromo della vittoria del comunismo libertario. Ma è significativo che Fabbri lasci l’ultima parola all’esperienza concreta del confronto tra le diverse sperimentazioni economiche. Il comunismo ne uscirà vincitore, si spera; ma se così non fosse il risultato, in una società libera e ‘sperimentale’, concepita come quadro di una concorrenza tra differenti opzioni e sistemi, sarebbe comunque legittimo.
La teorizzazione anarchica della libera sperimentazione è il culmine di una tendenza forse minoritaria, ma affascinante, del pensiero occidentale, che valorizza nel contempo l’autonomia dell’individuo, considerato come essere razionale capace di scelta, e l’interazione sociale, quadro dello sviluppo delle diverse opzioni immaginabili. Se ne possono cogliere echi e suggerimenti agli albori stessi della modernità. A cos’altro pensava John Milton, scrivendo, anche lui nel pieno di una rivoluzione, in favore di una tolleranza integrale in cui tutte le teorie fossero messe alla prova, se non a una "libera sperimentazione" religiosa? "E sebbene tutti i venti della dottrina siano lasciati liberi di agire sulla terra, se la verità è in campo noi facciamo male a metterci ad autorizzare o a proibire per sfiducia nella sua forza. Che essa e la falsità si affrontino: chi ha mai sentito che la verità, in uno scontro libero e aperto, abbia avuto la peggio? [...] Chi non sa che essa [...] non ha bisogno di politiche, di stratagemmi, di autorizzazioni, per vincere? Questi sono i provvedimenti e le difese che l’errore usa contro di lei: ma lasciatele invece spazio, e non legatela mentre dorme, perché allora essa non dice il vero [...], ma prende piuttosto mille forme, eccetto la sua, [...] fin quando è infine ridotta a quella sua vera. E tuttavia non è impossibile che essa abbia più di una forma".
La teorizzazione anarchica della libera sperimentazione è il culmine di una tendenza forse minoritaria, ma affascinante, del pensiero occidentale, che valorizza nel contempo l’autonomia dell’individuo, considerato come essere razionale capace di scelta, e l’interazione sociale, quadro dello sviluppo delle diverse opzioni immaginabili. Se ne possono cogliere echi e suggerimenti agli albori stessi della modernità. A che cos’altro pensava John Milton, scrivendo, anche lui nel pieno di una rivoluzione, in favore di una tolleranza integrale in cui tutte le teorie fossero messe alla prova, se non a una "libera sperimentazione" religiosa? "E sebbene tutti i venti della dottrina siano lasciati liberi di agire sulla terra, se la verità è in campo noi facciamo male a metterci ad autorizzare o a proibire per sfiducia nella sua forza. Che essa e la falsità si affrontino: chi ha mai sentito che la verità, in uno scontro libero e aperto, abbia avuto la peggio? [...] Chi non sa che essa [...] non ha bisogno di politiche, di stratagemmi, di autorizzazioni, per vincere? Questi sono i provvedimenti e le difese che l’errore usa contro di lei: ma lasciatele invece spazio, e non legatela mentre dorme, perché allora essa non dice il vero [...], ma prende piuttosto mille forme, eccetto la sua, [...] fin quando è infine ridotta a quella sua vera. E tuttavia non è impossibile che essa abbia più di una forma".


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