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lunedì 29 giugno 2015

Del matrimonio egualitario

di Fabio Massimo Nicosia

La sentenza della  Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, che ha reso giuridicamente operante su tutto il territorio federale il matrimonio tra persone dello stesso genere, merita di essere salutata come una conquista di portata storica, che solo gli svagati possono sottovalutare.
Non sfuggirà a nessuno che i finocchi si chiama(va)no così perché Sacra Romana Chiesa, e non solo, ardeva vivi gli omosessuali sui roghi, legandoli appunto a fascine di finocchio, o almeno così alcuni sostengono.

La condanna dell’omosessualità risale ovviamente alle sacre scritture, sicché il fatto che oggi la Corte Suprema parli del riconoscimento del matrimonio egualitario come di una questione di “pari dignità agli occhi della legge”, non può che far pensare a un punto di arrivo di portata trimillenaria che però alcuni distratti, appunto, non riconoscono.
Ad esempio, i soliti cretini affermano che il capitalismo della globalizzazione mondialista sarebbe ben lieto di riconoscere i diritti civili di persone strambe, piuttosto che occuparsi dei diritti dei lavoratori, che anzi ne risulterebbero vieppiù emarginati, almeno così par di comprendere dai toni.
Si tratta della fallacia logica nota come “benaltrismo”, per la quale ogni qualvolta si solleva una questione pur fondamentale, salta qualcuno in piedi come un misirizzi, gridando che la questione sarebbe sempre e comunque “ben altra”, come se si potessero fare gerarchie tra i problemi che attanagliano gli esseri umani.
Costoro dimenticano che intere generazioni di omosessuali hanno sofferto vite insopportabili, con matrimoni eterosessuali fasulli e di copertura, con vite clandestine, con incontri spesso occasionali in luoghi non sempre aulici, e così via, e che molto di ciò, almeno da noi, si deve alla prevalenza della cultura cattolica, così come altrove alla prevalenza di altre orrende culture religiose.
Ma veniamo a noi.
La Corte Suprema ha quindi applicato un elementare e fondamentale principio: la pari dignità di fronte alla legge. Pare che in Italia tutto ciò non sia possibile, dato che ci balocchiamo ancora, e ancora con difficoltà, con “unioni civili” variamente compromissorie.
C’è anche chi sostiene che “matrimonio” non sarebbe termine appropriato, perché trova radice in “mater”, mentre nell’omosessualità la maternità non sarebbe prevista.
A parte la grossolanità dell’argomento, dato che esiste la maternità surrogata, è agevole opporre che l’argomento prova troppo, dato che se “matrimonio” viene da “mater”, “patrimonio” viene da “pater”, ma nessuno dubita che donne o sterili possano essere titolari di un patrimonio, dato che il significato delle parole evolve con la società.
Ma poi c’è l’altro “fondamentale” argomento, agitato da esseri la cui appartenenza al genere umano è stata peraltro autorevolmente posta più volte in discussione, come nel caso dell’on. Giovanardi del Nuovo Centro Destra.
Sostiene egli infatti, e non solo lui, che l’art. 29 della nostra Costituzione individuando nella “famiglia” la “società naturale fondata sul matrimonio” (c. 1), l’eventuale introduzione del matrimonio egualitario richiederebbe riforma costituzionale.
Nulla di men vero. Ognun vede, infatti, che nell’art. 29 non si parla mai del sesso dei  “coniugi”, ma solo della loro “eguaglianza morale e giuridica” (c. 2).
Si dirà che il 27 dicembre 1947, allorché la Costituzione fu sottoscritta a Roma da Enrico De Nicola, che i “coniugi” fossero intesi come maschio lui e femmina lei fosse scontato. Ovvio. Ma, come detto, la società evolve e il diritto con essa.
Senonché nel nostro caso capita (che culo!) che non occorra alcuna acrobazia interpretativa per comportare un siffatto adeguamento ermeneutico, dato che la letteralissima lettera della norma vi si attaglia perfettamente, senza bisogno di modificare alcuna virgola. Sicché le argomentazioni dei contrari vanno loro ricacciate in gola.
In conclusione, tuttavia, nel momento in cui festeggiamo un passo decisivo verso la pari dignità degli esseri umani, non vogliamo unirci però al coro di chi sacralizza il matrimonio, trasformandolo da tomba a culla dell’amore, come ritengono gli sloganisti del “love wins”.
Il matrimonio è evidentemente istituto putrescente, dove spesso i coniugi si fanno tristi schiavi l’uno dell’altro, e nessuno può dirlo meglio dello scrivente, che se ne è prontamente liberato a suo tempo.
La strada libertaria di second best è quella, semmai, della de-nazionalizzazione del matrimonio, della sua mera riduzione a commercio e negozio privato, sicché si possa stipulare anche eventualmente tra due uomini e sette donne, tra quattro donne e diciannove uomini e così via, risolvendo di un colpo il problema della poligamia e della poliandria, che non si vede perché debbano rimanere privilegio, o pregiudizio, solo per alcuni, visto che la questione è posta all’ordine del giorno quantomeno dall’immigrazione islamica.
Insomma, anche i conservatori dovrebbero festeggiare per questa boccata di ossigeno impressa all’istituto matrimoniale, a vantaggio di chi se ne è visto ab antiquo escluso, e che oggi comprensibilmente mira a sperimentarlo. Noi etero, da parte nostra e peraltro, abbiamo già dato.
Post Scriptum
Stiamo vivendo in questi giorni una farsa, che non rende giustizia alla dignità delle persone, attorno al cosiddetto progetto di legge Cirinnà. A questo punto, a fronte di copiosa giurisprudenza interna e internazionale, è del tutto inutile incaponirsi per portare a casa una legge raffazzonata, e puntare tutto sulla libera ricerca del diritto, il giusliberismo, dottrina giuridica antica, che aspetta solo di essere riscoperta, e che consentirebbe di invocare i principi generali di eguaglianza e di libertà direttamente davanti al giudice civile, senza necessità di mediazione da parte di un legislatore costituitosi in burocrate del diritto.


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