di Rita Ciatti
Credo che tutti concordiamo sul fatto che la violazione
dei corpi altrui costituisca sempre un esercizio arbitrario di potere e dominio
e una negazione della libertà. Eppure questo assioma viene a cadere quando
parliamo degli animali non umani. Tenendo a mente la metafora del grattacielo
di Horkheimer della struttura verticistica e gerarchica del potere che trae la
sua linfa dallo sfruttamento del vivente – non dimenticando che esso è anche
trasversale e orizzontale – ci è possibile affacciarci per un attimo “sull’indescrivibile, inimmaginabile sofferenza
degli animali, l’inferno animale nella società umana, il sudore, il sangue, la
disperazione degli animali.”.
La questione è senza
dubbio sociale e politica, eppure nessuno sembra disposto ad ammettere la
propria responsabilità nel mantenimento di questa struttura; peggio ancora,
nessuno è capace di riconoscere che lo sfruttamento degli animali sia
ideologico e non “naturale, normale, necessario” come la cultura in cui
nasciamo ci fa credere.
Scrive la psicologa Annamaria Manzoni nel suo “Noi
abbiamo un sogno”: “Che cosa allora permette che tante persone assolutamente
per bene, rispettose e che mai metterebbero consapevolmente in atto
comportamenti lesivi nei confronti degli altri, con il loro silenzio accettino
e con le loro abitudini incentivino tutto questo?
Tra i meccanismi che entrano in gioco, un posto prioritario è occupato dalla cornice cognitiva all'interno della quale questi comportamenti vengono posti: semplicemente si parte dall'idea incontestabile che gli animali non sono persone. Il ragionamento prosegue: siccome la nostra cultura si ostina a considerare l'uomo al centro dell'universo, chi umano non è, è portatore, con la sua stessa diversità, di un'essenza priva di valore quando non addirittura gravida di pericoli e minacce: in altri termini o è inferiore o è pericoloso e come tale può e deve essere trattato. Quindi la cornice cognitiva permette a cacciatori, pescatori, toreri, vivisettori di non riconoscere sadismo, crudeltà, aggressività in ciò che fanno; permette a chi si nutre della loro carne di non provare rimorso o senso di colpa". E aggiungerei: permette alla collettività di considerare normali determinate pratiche di violenza e abuso di corpi animali, con il beneplacito dei media che abilmente ne nascondono gli aspetti più efferati e del sistema conservatore (anche quando si traveste da progressismo) che mira a perpetuare se stesso.
Tra i meccanismi che entrano in gioco, un posto prioritario è occupato dalla cornice cognitiva all'interno della quale questi comportamenti vengono posti: semplicemente si parte dall'idea incontestabile che gli animali non sono persone. Il ragionamento prosegue: siccome la nostra cultura si ostina a considerare l'uomo al centro dell'universo, chi umano non è, è portatore, con la sua stessa diversità, di un'essenza priva di valore quando non addirittura gravida di pericoli e minacce: in altri termini o è inferiore o è pericoloso e come tale può e deve essere trattato. Quindi la cornice cognitiva permette a cacciatori, pescatori, toreri, vivisettori di non riconoscere sadismo, crudeltà, aggressività in ciò che fanno; permette a chi si nutre della loro carne di non provare rimorso o senso di colpa". E aggiungerei: permette alla collettività di considerare normali determinate pratiche di violenza e abuso di corpi animali, con il beneplacito dei media che abilmente ne nascondono gli aspetti più efferati e del sistema conservatore (anche quando si traveste da progressismo) che mira a perpetuare se stesso.
Dunque, se la
questione, dicevamo, rimane essenzialmente politica, essa, per poter essere
compresa e presa seriamente in considerazione, necessita di un lavoro che
investa ogni aspetto della cultura a 360° capace di decostruire tutto ciò che
di fatto legittima la schiavitù degli animali (compresi noi stessi). Uso
appositamente il termine “schiavitù” perché essi sono materia prima a costo
zero – esattamente come lo erano i neri d’Africa deportati dalle loro terre e
come lo sono oggi gli immigrati disperati disposti a lavorare per pochi spicci,
quando ce la fanno almeno a restare vivi: mere risorse rinnovabili, ciò che di
fatto consente il mantenimento di quelle strutture e meccanismi di dominio
entro i quali il capitalismo continua a prosperare (cambiando forma,
rinnovandosi, ma mai estinguendosi).
Forse sarebbe
il caso di cominciare a chiederci CHI sono questi altri animali che abitano il
pianeta insieme a noi assumendo una prospettiva di decentramento dalla
posizione eretta (che ci contraddistingue, insieme ad altre peculiarità, come
specie). Ora, a meno che non si sia rimasti fermi al paradigma cartesiano
dell’animale-macchina, credo che tutti si sia disposti a riconoscere negli
individui appartenenti alle altre specie un corpo e un cervello, degli organi
sensoriali e capacità cognitive. Un corpo che vive, quindi, fatto della stessa
materia organica del nostro. Il primo errore che si commette però è continuare
a separare la nostra specie da tutte le altre, rinnegando la condivisione dello
stare al mondo e dell’essere corpi animali destinati a morire non meno degli
altri. Possiamo dire che il concetto stesso di umanità si è costituito in
opposizione a quello di animalità, dove per animalità intendiamo un calderone
confuso e indistinto in cui confluiscono zampe, becchi, creste, zoccoli,
squame, pinne, piume e pellicce. Non contenti, abbiamo preso svariati nostri
attributi (capacità di astrazione del pensiero, linguaggio verbale,
progettazione ecc.), gli abbiamo dato un valore positivo e senza nulla o
pochissimo saper delle altre specie, abbiamo deciso, per negazione, che tutto
ciò che non rientrava nell’ampio spettro dell’umano, fosse negativo. E siamo
stati talmente gelosi di certe nostre peculiarità da non volerne riconoscere
negli altri animali, nemmeno quando evidenti, così da sminuire comportamenti,
intenzioni, intelligenze, volontà, di sicuro diverse, ma non per questo meno
significative, liquidandoli con una parola che vuol dire tutto e niente:
istinto. Se noi abbiamo una reazione di un certo tipo, è di sicuro
intelligenza; se fa lo stesso un cane, allora deve essere sicuramente istinto.
Sempre noi che
definiamo, etichettiamo, alziamo barriere, erigiamo muri, stabiliamo chi è
degno e chi no del nostro rispetto e riconoscimento. Dispensiamo potere e
violenza, disconoscendo l’esistenza degli altri.
Tutto questo
però è solo una parte modesta di ciò che di fatto legittima e consente lo sfruttamento e lo sterminio di
miliardi di individui senzienti (170 miliardi di individui uccisi ogni anno e
solo per l’alimentazione, esclusi i pesci). Nei secoli si è venuto a instaurare
un circolo vizioso per cui più gli animali vengono sfruttati e più,
nell’immaginario mentale, vengono ridotti a cose; ma più li si percepisce come
cose, più ci è sempre più facile ignorare la sofferenza e lo strazio delle loro
carni martoriate.
Vi è poi una
sorta di schizofrenia a livello giuridico. Da una parte, superato – o almeno
dovrebbe – il paradigma cartesiano dell’animale-macchina, siamo disposti a
riconoscer loro la capacità di soffrire – e quando si dice sofferenza non si
intende soltanto quella fisica e/o psicologica, ma anche quella per la
privazione della libertà e quindi della possibilità di esprimere le diverse
esigenze etologiche –, dall’altra, continuiamo a considerarli cose, res,
appartenenti a un proprietario e quindi di fatto a rinnegarne l’essenza di
invidui liberi. Così si è pensato bene di mettere a tacere alcuni scrupoli di
coscienza inventandoci le norme sul “benessere animale”: niente di più e niente
di meno di una sorta di paravento legislativo dietro il quale continuare a
commettere le medesime atrocità di prima.
A soffocare
eventuali rigurgiti di coscienza ci viene in soccorso poi tutta una
terminologia neutra che non permette il riconoscimento e l’identificazione
dell’individualità animale dopo che ha subito la trasformazione in prodotti.
Sempre Annamaria Manzoni ci spiega come agisce la dissociazione cognitiva che
non permette di ricollegare quella che comunemente chiamiamo “carne”,
all’animale vivo che è stato: “Dal momento che i
messaggi suggestivi associano l’alimento all’affetto, quello che avverrà sarà
l’instaurarsi, a livello inconscio e profondo, di una pericolosa
sovrapposizione e identificazione tra fondamentali relazioni familiari e
offerte di cibo animale, operazione facilitata dal fatto che il cibo, per sua
stessa natura, riveste incredibili valenze simboliche legate all’esperienza del
latte materno.
L’operazione pubblicitaria che coinvolge i destinatari più giovani è egregia dal punto di vista dell’azienda, molto meno dal punto di vista etico e del benessere psicologico, perché induce un meccanismo di scissione tra due realtà che sono destinate a mantenersi estranee l’una all’altra: il bambino continuerà a sorridere ai porcellini e a mangiarli, una volta sgozzati, senza avvertire l’incongruenza.
I genitori, prima lo guarderanno con compiacimento intenerirsi giocoso e dopo gli serviranno in tavola il prosciutto, la carne, il tonno. Per quanto riguarda loro, la scissione ha avuto inizio da tempo immemorabile ed è ora perfettamente funzionante.
Per inciso, la scissione è un meccanismo di difesa psicologicamente grave; è quello che consente di non integrare le caratteristiche dell’altro in immagini coese e di assolutizzare ora l’uno ora l’altro degli aspetti che vengono in contatto con la propria esperienza immediata e con le relative emozioni: così mentre amo tanto il porcellino rosa, lo mangio con grande gusto una volta scannato.
Rispetto all’infanzia il mondo adulto appare davvero dissociato: mentre solletica nei bimbi l’espressione di un atteggiamento affettuoso verso le bestie, contestualmente li educa ad abitudini che ripercorrono e cronicizzano il quotidiano asservimento e sfruttamento perpetrato a loro danno”.
L’operazione pubblicitaria che coinvolge i destinatari più giovani è egregia dal punto di vista dell’azienda, molto meno dal punto di vista etico e del benessere psicologico, perché induce un meccanismo di scissione tra due realtà che sono destinate a mantenersi estranee l’una all’altra: il bambino continuerà a sorridere ai porcellini e a mangiarli, una volta sgozzati, senza avvertire l’incongruenza.
I genitori, prima lo guarderanno con compiacimento intenerirsi giocoso e dopo gli serviranno in tavola il prosciutto, la carne, il tonno. Per quanto riguarda loro, la scissione ha avuto inizio da tempo immemorabile ed è ora perfettamente funzionante.
Per inciso, la scissione è un meccanismo di difesa psicologicamente grave; è quello che consente di non integrare le caratteristiche dell’altro in immagini coese e di assolutizzare ora l’uno ora l’altro degli aspetti che vengono in contatto con la propria esperienza immediata e con le relative emozioni: così mentre amo tanto il porcellino rosa, lo mangio con grande gusto una volta scannato.
Rispetto all’infanzia il mondo adulto appare davvero dissociato: mentre solletica nei bimbi l’espressione di un atteggiamento affettuoso verso le bestie, contestualmente li educa ad abitudini che ripercorrono e cronicizzano il quotidiano asservimento e sfruttamento perpetrato a loro danno”.
Ora, preso atto di tutto ciò, non rimarebbe che ammettere che esiste una
discrepanza enorme tra quella che ci mostrano come normalità e la vera,
brutale, realtà dei fatti. Eppure non basta. Non basta dirlo perché la
consuetudine, il sostegno dei governi, della maggioranza, dei media,
l’andamento di meccanismi economici che stritolano i corpi, in poche parole, il
sistema in cui viviamo, rende molto difficile la presa di coscienza individuale
e, qualora essa avviene, ci troviamo a combattere un mostro a così tante teste
che ogni atto individuale eversivo appare subito come vano.
Come fare allora? Quello su cui, a mio modesto avviso, sarebbe opportuno
ragionare è che la questione dello sfruttamento animale non riguarda soltanto i
cosiddetti “antispecisti”, ma la collettività tutta perché lo stesso meccanismo
impietoso che stritola i corpi animali, si riversa brutalmente anche su noi
stessi. Basti pensare all’alienante mansione che gli addetti al macello sono
costretti a svolgere per far sì che magicamente la fettina di carne – epurata
di tutta la sua violenza implicita – compaia sui banchi del supermercato.
Può esser considerato giusto un lavoro che provoca frequenti disturbi
post-traumatici da stress, alcolismo, dipendenze, alienazione, depressione e
ricade sulla pelle di pochi affinché i tanti possano continuare a perpetuare
col velo sugli occhi questa “banalità del male”?
Può esser considerato giusto un lavoro
che necessità una progressiva desensibilizzazione per poter essere svolto?
E non si creda
che siano solo queste mansioni umili a svilire il concetto stesso di umanità
che tanto ci piace portare su un palmo di mano. Persino il vituperato
vivisperimentatore – convinto di essere il paladino di un fine nobile: curare
malattie, scoprire nuove cure ecc. – è in realtà una “vittima” – mi si passi il
termine e di certo lo è molto meno e in maniera diversa rispetto all’animale
che agonizza sui tavoli dei laboratori dove opera - di questa società che tratta i corpi animali,
la nuda vita animale, come fossero macchine: stritolandole in un immenso
ingranaggio. Anche qui, ci si fa scudo affermando che l’etica debba restare
fuori dalla scienza, eppure una scienza incapace di delimitare limiti e
confini, di mettersi costantemente in discussione scivolando in un dogmatismo
quasi religioso – residuo di un pensiero magico secondo il quale è uccidendo
l’altro che salveremo noi stessi –, non può
esser definita scienza. È lecito condurre esperimenti su individui senzienti e poi sopprimerli
come fossero rifiuti per mandare avanti l’industria dei farmaci basata sul
concetto ormai obsoleto di “cura del sintomo”? Considerando poi che si
definisce “sintomo” quello indotto artificialmente su altre specie, senza tener
conto dell’eziologia.
In poche parole viviamo
dentro una società basata su una logica di dominio, oppressione, violenza dei
corpi animali, e tanto più essa è istituzionalizzata e accettata
collettivamente, tanto più ci appare normale e legittima. Ma è proprio questa
la grande scommessa dell’antispecismo, che va ben oltre la mera questione del
veganismo: decostruire l’antropocentrismo e mettere in discussione questa
logica del dominio che in realtà ha tanto di logico e razionale quanto ne
avevano i campi di concentramento nazisti, comunisti o di qualsiasi altra
ideologia autoritaria che, nei secoli, abbia eretto luoghi di confinamento
totale. Come a dire: non tutto ciò che è logico è necessariamente anche giusto.
Credo soprattutto che
dovremmo stabilire cosa una società davvero libera o comunque sempre più
tendente al libertarismo dovrebbe contemplare: non abbiamo ancora capito che
finché anche un solo individuo sarà in catene, in gabbia, o dentro un
mattatoio, nessuno di noi potrà dirsi realmente libero perché l’esistenza
stessa di questi luoghi di confinamento e violazione dei corpi animali imprime
sulla società che li permette il proprio segno autoritario.
Abbiamo confuso l’esercizio
della libertà con quello del potere di abusare del pianeta e di altri corpi. E,
peggio ancora, confondiamo l’abolizionismo di queste pratiche violente con il
probizionismo. Come se la nuda vita animale fosse un oggetto sacrificabile per
un vizio, un’abitudine, un capriccio legato a un gusto indotto dalla tradizione
che si perpetua di padre in figlio. Le tradizioni e le abitudini si ripetono
senza mai mettersi in discussione, sorrette da tesi cosiddette definizionaliste
(ossia, che si presentano come ovvie per definizione, senza il sostegno di
valide argomentazioni e solo perché nessuno si è mai preso la briga di
confutarle) facendosi portatrici del conservatorismo più reazionario.
Una società, o anche una
sola città in cui esistono mattatoi, allevamenti, laboratori per la
sperimentazione animale, zoo, luoghi di confinamento e di segregazione di massa
non possono dirsi società libere e continuare a tollerarle o giustificarle
semplicemente appellandosi all’ovvietà della loro esistenza significa
incentivare il dominio e il capitalismo
più spregiudicato.
Ecco perché se ci si
definisce libertari e anti-autoritari non si può liquidare con sufficienza
l’antispecismo o, peggio, pensare che sia solo una questione di amore per gli
animali. Esso parla di giustizia e di liberazionismo, di ridefinizione del
concetto di umanità in opposizione a quello di animalità, di messa in
discussione radicale della società e cultura in ogni suo aspetto in un’ottica
di liberazione da ogni forma di sfruttamento del vivente.
Articolo stupendo, grazie.
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