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giovedì 21 maggio 2015

La natura giuridica dello Stato, oggi

di Fabio Massimo Nicosia

Per parlare della natura giuridica dello Stato oggi, occorre prendere le mosse dalla definizione di derivazione weberiana, secondo la quale lo Stato sarebbe l’organizzazione burocratica del monopolio della forza su un dato territorio. Senonché la forza è risorsa intrinsecamente non monopolizzabile, in altri termini, lo Stato non è un monopolio naturale. La forza è risorsa naturale a disposizione di chiunque, di tutti e di ognuno, si tratta di risorsa e pre-risorsa pandespota, diffusa e inescludibile, da qui la dottrina delle istituzioni di Santi Romano, ma anche quella del diritto come scambio di pretese individuali di Bruno Leoni. Sicché può parlarsi al più di rivendicazione del relativo monopolio, o, più esattamente del monopolio delle qualificazioni giuridiche in termini di legittimità sull’uso e sull’organizzazione della forza.







Quanto alle funzioni che sarebbero tipiche e proprie di un tale soggetto, ai nostri tempi si è soliti contrapporre le visioni di Robert Nozick e di John Rawls. Secondo il primo, lo Stato dovrebbe limitarsi a garantire i diritti di proprietà, per il secondo dovrebbe occuparsi anche degli stati di benessere, anche modificando i titoli di proprietà, pur se sempre nel rispetto dei diritti umani.

Senonché Nozick ha un vantaggio su Rawls, perché muove anzitutto dalla domanda se lo Stato sia necessario per perseguire questi obiettivi di bene pubblico, mentre Rawls lo dà per scontato, e non argomenta sul punto, e ciò è gravissimo in un filosofo politico, se solo si pensa che Hobbes non ha fatto altro nella sua vita e che Hume è arrivato alla conclusione che “forse” nessun governo è necessario.

Nozick dice che lo Stato sarebbe necessario, perché il servizio di protezione sarebbe a propria volta indivisibile, e come tale legittimerebbe la riscossione fiscale coattiva, ignorandosi l’ipotesi alternativa randiana della contribuzione volontaria, che si ritiene esclusa dalla storia e sconfitta dall’evoluzione degli istituti considerati. Ma si tratta di argomento già preso in considerazione da Gustave de Molinari nel 1848, che, da economista liberista, aveva esteso il laissez faire di Adam Smith alla primaria materia del diritto e della sicurezza, riconoscendo che sul medesimo territorio potessero competere più imprese anche in quella materia.

L’altro argomento di presunta necessità monopolistica è poi il conio, che negli stessi anni gli anarchici, soprattutto gli americani e Proudhon, stanti invece miopia e sordità di Marx sul punto, volevano libero. Gli anarco-capitalisti argomentano oggi in entrambe le direzioni, anche se non ammettono la ricontrattazione dei titoli di proprietà sulla base di criteri utilitaristici e di mercato tra gli individui, dei quali non si coglie il loro rappresentare a ben vedere dei comunisti in senso civilistico della Terra.

La teorica del bene pubblico in senso economico, nel diritto penale si esprime in particolare attraverso la dottrina del bene giuridico tutelato. Il danneggiato dal reato è il privato, ma il danno da lui subito non viene generalmente molto considerato né tantomeno risarcito. In compenso lo Stato coglie l’occasione per riaffermare la propria ragion d’essere estendendo la potestà e la pretesa punitiva, attraverso la proliferazione dei reati in tutti i più svariati ambiti, percepiti ognuno appunto come interesse pubblico da assicurare, come bene giuridico, come bene pubblico indivisibile e non come bene privato leso della vittima. Naturalmente quando la vittima c’è, perché esistono anche i victimless crimes, nei quali il presunto interesse pubblico tiene luogo di un inesistente interesse privato a punire un malfattore dal suo punto di vista inesistente, come avviene in tutti i proibizionismi.

La domanda è quindi se per realizzare tutti questi obiettivi di benessere, veri e presunti, lo Stato sia necessario, e ciò investe interrogativi ancora sul concetto economico di bene pubblico e sui presunti rispettivi fallimenti di Stati e mercati nel realizzarli e produrli. Molti hanno argomentato che anche il mercato è in grado di produrre beni pubblici: del resto, gli stessi servizi di distribuzione di Coca Cola e MacDonalds potrebbero essere configurati come beni pubblici in senso economico, dato che producono effetti inescludibili e ognuno ne sopporta le esternalità, siano esse percepite come negative o positive. Anche Google, Wikipedia e Facebook svolgono palesemente servizi pubblici in senso economico, e se lo Stato ritenesse di qualificarli un giorno, in quanto beni ritenuti "necessari", beni pubblici anche in senso giuridico, potrebbe giungere a pretendere di collettivizzarli o disciplinarli più di quanto non faccia oggi, come del resto avviene nei contesti autoritari.

Ma se non è un monopolio della forza, perché la forza non può consustanzialmente essere monopolizzata se non per credenza costitutiva, lo Stato in che altro può consistere, alla luce di un approccio empirico e razionale? Secondo le correnti di public choice, si tratta di  un’istituzione al cui interno si riproducono, dato l’indeludibile individualismo metodologico, i medesimi meccanismi concorrenziali del mercato. Ma, diciamo noi, a differenza del mercato, lo Stato è un’istituzione chiusa, e al suoi interno non vi sono libere concorrenze, ma aste competitive ad aggiudicatario esclusivo, dal piccolo al grande privilegio, dalla prestazione più umile alla carica più alta, il tutto sempre sviluppato in gerarchia.

Lo Stato quindi rivendica il monopolio della forza, ma non lo consegue, anche se i suoi meccanismi di riproduzione della legittimazione portano anche alla produzione e riproduzione di forza e violenza (si pensi alla banalità del male dell’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario).

Esistono istituti giuridici oggi vigenti, in grado di esprimere e descrivere questa situazione materiale, caratterizzata dalla rivendicazione dell’appropriazione della forza da parte di un soggetto collettivo organizzato?

Almeno due, uno penalistico, l’altro civilistico-amministrativistico, l’uno proiezione dell’altro nella proprio ambito. Il primo è rappresentato dall’art. 416 bis del codice penale italiano, il secondo dall’istituto europeo dell’abuso di posizione dominante, sol che si consideri che anche la spartizione territoriale dei mercati è considerata abuso di posizione dominante. In base all’art. 416 bis, c. 3, “L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione  del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali”. L’ultimo comma precisa che “Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra, alla ‘ndrangheta e alle altre associazioni, comunque localmente denominate anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso”. Il testo è quello successivamente modificato. Ad esempio, si è sentita successivamente l’esigenza di includervi esplicitamente la ‘ndrangheta e precisare che l’associazione può essere costituita anche da stranieri, benchè non ve ne fosse bisogno, dato che la norma è omnicomprensiva. Cascami di sociologia.

Ora, analizzando l’articolo si individua esattamente un soggetto organizzato e armato, comunque denominato, il quale rivendichi il proprio dominio anche economico sul territorio, approfittando della sua forza di intimidazione. Dalla prevenzione generale e speciale della minaccia dell’uso della forza e della privazione della libertà personale rappresentata dal diritto penale e quasi-penale, all’irresistibile pressione fiscale (i dati sull’evasione sono artatamente gonfiati, dato che, con gli studi di settore, con l’inversione dell’onere della prova, il solve et repete e l’intreccio delle banche dati, l’amministrazione conosce vita, morte e miracoli dei contribuenti), lo Stato fa proprio questo, e che altro se non gestire con la forza, sia pure della sua legge, concessioni, autorizzazioni, appalti e servizi, in dispregio della libera concorrenza? E si noti che le proposte più aggiornate, ad esempio quella di Giovanni Fiandaca, vanno nella direzione di togliere qualsiasi arcaico riferimento “culturale” e di insediamento territoriale all’art. 416 bis. Così quando emerge la vicenda di “Mafia Capitale”, noi sappiamo che non è vero che “la mafia è arrivata a Roma”, come si dice, ma che anche a Roma esistono organismi del tutto autonomi, che sono rispondenti alla fattispecie delineata dal 416 bis. E altri ve ne sono, presumibilmente, in molti luoghi.

Lo Stato è quindi anzitutto un illecito penale, per il diritto vigente italiano, che l'ha messo fuori legge: sul piano formale, con l'art.416 bis, la Repubblica Italiana si è autodissolta.

Mentre è un illecito civile-amministrativo per il diritto europeo e di derivazione comunitaria europea.

Dispone infatti Articolo 102, ex art. 82, del Trattato istitutivo: “È incompatibile con il mercato interno e vietato, nella misura in cui possa essere pregiudizievole al commercio tra Stati membri, lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato interno o su una parte sostanziale di questo.

Tali pratiche abusive possono consistere in particolare:

a) nell'imporre direttamente od indirettamente prezzi d'acquisto, di vendita od altre condizioni di transazione non eque;

b) nel limitare la produzione, gli sbocchi o lo sviluppo tecnico, a danno dei consumatori;

c) nell'applicare nei rapporti commerciali con gli altri contraenti condizioni dissimili per prestazioni equivalenti, determinando così per questi ultimi uno svantaggio per la concorrenza;

d) nel subordinare la conclusione di contratti all'accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari, che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun nesso con l'oggetto dei contratti stessi”.

E’ esattamente quanto fa lo Stato, quantomeno quando amministra il bene economico e giuridico “forza”, a tacere del diritto pubblico dell’economia, ovviamente: fissa unilateralmente “prezzi” e “tariffe”, ossia, con Oliver Wendell Holmes e tutto il realismo giuridico fino a Tarello, disposizioni e norme. Limita l’accesso all’esercizio della forza legittima ad altri operatori, svantaggiandoli nella concorrenza, qualificandole ad esempio “associazioni criminali” pur quando queste non fanno altro che, in piccola scala, quello che lo Stato fa su grande, guerre comprese e in primo luogo. Lo Stato, anche democratico, del resto, impone “pacchetti” di prestazioni, come i programmi elettorali del tipo “prendi tutto o respingi tutto” (il che non è consentito a Microsoft), e ciò anche ben al di là di quanto promesso in campagna elettorale, offerta al pubblico o invitatio ad offerendum, dato che secondo la giurisprudenza i cittadini nei confronti della politica non vantano né diritti soggettivi, né interessi legittimi, sicché la politica è legibus soluta.

Ove tale ricostruzione apparisse semplicistica, dato che presuppone un’idea di Stato come un monolite quale nella realtà non sarebbe, sicché ricadremmo nella proposta di Sabino Cassese, secondo il quale lo Stato sarebbe costituito da una pluralità di entità che condividono una cassa comune, varrebbe comunque l’altra ipotesi di diritto comunitario della concorrenza, quella delle intese. In base all’art. 101 (ex art. 81) del Trattato, infatti, “Sono incompatibili con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all'interno del mercato interno ed in particolare quelli consistenti nel:

a) fissare direttamente o indirettamente i prezzi d'acquisto o di vendita ovvero altre condizioni di transazione;

b) limitare o controllare la produzione, gli sbocchi, lo sviluppo tecnico o gli investimenti;

c) ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento;

d) applicare, nei rapporti commerciali con gli altri contraenti, condizioni dissimili per prestazioni equivalenti, così da determinare per questi ultimi uno svantaggio nella concorrenza;

e) subordinare la conclusione di contratti all'accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari, che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun nesso con l'oggetto dei contratti stessi”.

Si dirà anzitutto che lo Stato non è un’ “impresa”. E in effetti, lo Stato non cerca consumatori da soddisfare, dato che discrimina su chi possano essere i propri sudditi da tassare, limitando l’immigrazione, ad esempio. Ma, a parte ciò, si è visto che lo Stato svolge, anzi impone volenti o nolenti, una grande quantità di prestazioni e servizi di natura aziendale, valutabili sotto il profilo economico e della relativa efficienza. Per altro verso, occorre rifarsi a tale proposito anche alla nozione comunitaria di Organismo di Diritto Pubblico, che, per come l’abbiamo intesa noi, rappresenta un soggetto dotato di facoltà pubblicistiche, al quale si applica l’eccesso di potere (l’abuso di posizione dominante delinea fattispecie tutte omologhe ai sintomi dell’eccesso di potere), ma che opera quale imprenditore in concorrenza con altri operatori, pur altrettanto dotati di potestà pubblicistiche. O almeno questo è il modello verso il quale si tende.

La tendenza evolutiva dell’ordinamento del sistema è cioè in questa direzione, di fondere elementi civilistici, ad esempio il principio di buona fede, con elementi pubblicistici, come appunto l’eccesso di potere, fino a renderli indistinguibili.

Ora, “gli accordi o decisioni, vietati in virtù del presente articolo, sono nulli di pieno diritto”, quindi anche come “intesa”, e non solo come abuso di posizione dominante, lo Stato è nullo, è void.

Non ci dilunghiamo sulle eccezioni, che confermano però che solo dimostrandosi efficiente e satisfattivo lo Stato potrebbe rivendicare ancora una residua liceità, ma ciò lo espone alla verifica sul campo, non al mistico a priori della sovranità.

A tale proposito, torniamo alla classificazione nozickiana. Come è noto, Nozick distingue la fase dell’agenzia dominante, quella dello Stato ultraminimo e quella dello Stato minimo. Posto che il monopolio della forza è “impossibile”, diremmo che lo Stato non va oltre la fase dell’agenzia dominante, salvo che esso abusa di tale situazione di privilegio, imponendosi indebitamente agli indipendenti (per stare ancora alle categorie nozickiane) pretendendosi e  autoqualificandosi “Stato”, prima ultraminimo e poi minimo.

Lo Stato esercita lo ius utendi et abutendi, si direbbe, come l’allodio medievale e proudhoniano. Senonché l’allodio, oltre a essere di minuta dimensione, non pretende sovranità, e anzi la presuppone. Mentre lo Stato accetta fin qui come spazio giuridico più ampio rispetto al proprio solo il diritto internazionale, persistendo nella rivendicazione della sovranità sul proprio territorio. Per questo non è esatto configurare, come taluno ha fatto, lo Stato della Città del Vaticano come allodio, dato che il Vaticano è sovrano e superiorem non recognoscens, salvo appunto l’ordinamento internazionale, se si accoglie la visione kelseniana del diritto internazionale quale fonte gerarchicamente superiore.

Non vi è dubbio che sono in corso importanti processi di dissoluzione della sovranità, ai quali si oppongono nazionalitari di destra e di sinistra. Il più rilevante appare oggi il processo di trattativa in corso per il Ttip, Transatlantic Trade and Investment Partnership. L’innovazione a nostro avviso più significativa è la previsione di arbitrati privati per controversie di colossale importanza tra Stati e multinazionali, arbitrati che investono questioni di fondo delle politiche nazionali. Naturalmente i nazionalitari gridano allo scandalo, mentre la questione va correttamente inquadrata. Lo Stato accetta ora non solo il diritto internazionale, ma anche il mercato, quale spazio giuridico più ampio rispetto al proprio. Tuttavia di che “mercato” stiamo parlando?

Noi in passato abbiamo utilizzato la nozione di “idiocrazia”, da idion, privato, per descrivere un sistema nel quale grande privato e Stato sono a tal punto compenetrati da risultare indistinguibili: complesso militare-industriale, industria dell’energia ampiamente sussidiata dal petrolio in giù, che ovviamente si giova di concessioni, e di concessioni di privilegio, per la ricerca e la trivellazione; grandi concessionari di opere pubbliche e della ricostruzione bellica; istituti finanziari too big too fail, costretti al gioco sporco dei titoli spazzatura dal divieto di free coinage; sistema delle assicurazioni per infortuni e previdenziali obbligatorie; industria farmaceutica la cui prosperità dipende dagli indirizzi dei sistemi sanitari nazionali; colossi dell’informatica protetti da brevetti e copyright, istituti, lo si dimentica spesso, non del “capitalismo”, ma statalisti e nati come patenti regie.

Ora, a fronte dell’istituto dell’arbitrato del Ttip, scaturiscono due ordini di considerazioni. Da un lato, si viene a introdurre un elemento di contraddizione dialettica all’interno del sistema idiocratico, dato che multinazionali e Stati recuperano, almeno in sede giudiziale, la propria autonoma soggettività, rimettendo ad arbitri professionali la soluzione delle controversie che insorgessero tra di loro.

Dall’altro lato non può non sfuggire, però, che tale auspicata denazionalizzazione vale solo per alcuni e non per tutti: solo per i grandi privati e non per i piccoli, il cui rapporto con lo Stato è di solito rapporto con burocrazie, guardie di finanza e polizie di ogni sorta, nei confronti delle quali non può vantare alcun diritto potestativo di partecipazione ai relativi procedimenti amministrativi. Non si sa se perché queste sono dotate e titolari di poteri vincolati, o fin troppo discrezionali.

Ne scaturisce l’idea di un diritto di classe, liberale e forse addirittura libertario, per alcuni, i grossi, e autoritario e paternalistico per i più, i piccoli. Una prima modestissima proposta in senso ascendente potrebbe essere rappresentata dall’inclusione degli interessi diffusi in quegli arbitrati, sicché le questioni sanitarie, ambientali, etc. non siano devolute agli interessi di pochi, ma siano ampliate ad interventi ad adiuvandum o ad opponendum dei cittadini. O prevedere addirittura l’azione popolare.

D’altra parte –concludiamo con una nota di ottimismo-, non sarebbe la prima volta, nella storia, che i privilegi di alcuni di oggi possano diventare i diritti  di tutti domani, come è accaduto via via nel corso dei secoli con la Magna Charta, nata per tutelare i diritti dei baroni e finita per assicurare, precedente dopo precedente, i diritti di tutti.
E non si dimentichi mai che, in base all’art. 20, c. 2, della Dichiarazione universale dei diritti umani, “nessuno può essere costretto a far parte di un’associazione”, E ognuno sa, dalle nostre parti, che lo Stato è l'unica associazione ad appartenenza necessaria esistente.

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