di Fabio Massimo Nicosia
Per
parlare della natura giuridica dello Stato oggi, occorre prendere le mosse
dalla definizione di derivazione weberiana, secondo la quale lo Stato sarebbe
l’organizzazione burocratica del monopolio della forza su un dato territorio. Senonché la forza è
risorsa intrinsecamente non monopolizzabile, in altri termini, lo Stato non è un monopolio naturale. La forza è risorsa naturale a
disposizione di chiunque, di tutti e di ognuno, si tratta di risorsa e
pre-risorsa pandespota, diffusa e inescludibile, da qui la dottrina delle
istituzioni di Santi Romano, ma anche quella del diritto come scambio di pretese
individuali di Bruno Leoni. Sicché può parlarsi al più di rivendicazione del relativo monopolio, o, più esattamente del
monopolio delle qualificazioni giuridiche in termini di legittimità sull’uso e sull’organizzazione
della forza.
Quanto
alle funzioni che sarebbero tipiche e proprie di un tale soggetto, ai nostri
tempi si è soliti contrapporre le visioni di Robert Nozick e di John Rawls.
Secondo il primo, lo Stato dovrebbe limitarsi a garantire i diritti di
proprietà, per il secondo dovrebbe occuparsi anche degli stati di benessere,
anche modificando i titoli di proprietà, pur se sempre nel rispetto dei diritti
umani.
Senonché
Nozick ha un vantaggio su Rawls, perché muove anzitutto dalla domanda se lo
Stato sia necessario per perseguire questi obiettivi di bene pubblico, mentre
Rawls lo dà per scontato, e non argomenta sul punto, e ciò è gravissimo in un
filosofo politico, se solo si pensa che Hobbes non ha fatto altro nella sua
vita e che Hume è arrivato alla conclusione che “forse” nessun governo è
necessario.
Nozick
dice che lo Stato sarebbe necessario, perché il servizio di protezione sarebbe a
propria volta indivisibile, e come tale legittimerebbe la riscossione fiscale
coattiva, ignorandosi l’ipotesi alternativa randiana della contribuzione
volontaria, che si ritiene esclusa dalla storia e sconfitta dall’evoluzione
degli istituti considerati. Ma si tratta di argomento già preso in
considerazione da Gustave de Molinari nel 1848, che, da economista liberista,
aveva esteso il laissez faire di Adam
Smith alla primaria materia del diritto e della sicurezza, riconoscendo che sul medesimo territorio potessero competere più imprese anche in quella materia.
L’altro argomento di presunta necessità monopolistica è poi il conio, che negli stessi anni gli anarchici, soprattutto gli americani e Proudhon, stanti invece miopia e sordità di Marx sul punto, volevano libero. Gli anarco-capitalisti argomentano oggi in entrambe le direzioni, anche se non ammettono la ricontrattazione dei titoli di proprietà sulla base di criteri utilitaristici e di mercato tra gli individui, dei quali non si coglie il loro rappresentare a ben vedere dei comunisti in senso civilistico della Terra.
L’altro argomento di presunta necessità monopolistica è poi il conio, che negli stessi anni gli anarchici, soprattutto gli americani e Proudhon, stanti invece miopia e sordità di Marx sul punto, volevano libero. Gli anarco-capitalisti argomentano oggi in entrambe le direzioni, anche se non ammettono la ricontrattazione dei titoli di proprietà sulla base di criteri utilitaristici e di mercato tra gli individui, dei quali non si coglie il loro rappresentare a ben vedere dei comunisti in senso civilistico della Terra.
La
teorica del bene pubblico in senso economico, nel diritto penale si esprime in
particolare attraverso la dottrina del bene giuridico tutelato. Il danneggiato
dal reato è il privato, ma il danno da lui subito non viene generalmente molto
considerato né tantomeno risarcito. In compenso lo Stato coglie l’occasione per
riaffermare la propria ragion d’essere estendendo la potestà e la pretesa
punitiva, attraverso la proliferazione dei reati in tutti i più svariati
ambiti, percepiti ognuno appunto come interesse pubblico da assicurare, come
bene giuridico, come bene pubblico indivisibile e non come bene privato leso
della vittima. Naturalmente quando la vittima c’è, perché esistono anche i victimless crimes, nei quali il presunto interesse pubblico tiene luogo di un
inesistente interesse privato a punire un malfattore dal suo punto di vista
inesistente, come avviene in tutti i proibizionismi.
La
domanda è quindi se per realizzare tutti questi obiettivi di benessere, veri e
presunti, lo Stato sia necessario, e ciò investe interrogativi ancora sul
concetto economico di bene pubblico e sui presunti rispettivi fallimenti di Stati
e mercati nel realizzarli e produrli. Molti hanno argomentato che anche il
mercato è in grado di produrre beni pubblici: del resto, gli stessi servizi di
distribuzione di Coca Cola e MacDonalds potrebbero essere configurati come beni
pubblici in senso economico, dato che producono effetti inescludibili e ognuno
ne sopporta le esternalità, siano esse percepite come negative o positive. Anche
Google, Wikipedia e Facebook svolgono palesemente servizi pubblici in senso
economico, e se lo Stato ritenesse di qualificarli un giorno, in quanto beni ritenuti "necessari", beni pubblici
anche in senso giuridico, potrebbe giungere a pretendere di collettivizzarli o
disciplinarli più di quanto non faccia oggi, come del resto avviene nei contesti
autoritari.
Ma se
non è un monopolio della forza, perché la forza non può consustanzialmente essere
monopolizzata se non per credenza costitutiva, lo Stato in che altro può consistere,
alla luce di un approccio empirico e razionale? Secondo le correnti di public choice, si tratta di un’istituzione al cui interno si riproducono,
dato l’indeludibile individualismo metodologico, i medesimi meccanismi
concorrenziali del mercato. Ma, diciamo noi, a differenza del mercato, lo Stato
è un’istituzione chiusa, e al suoi interno non vi sono libere concorrenze, ma
aste competitive ad aggiudicatario esclusivo, dal piccolo al grande privilegio,
dalla prestazione più umile alla carica più alta, il tutto sempre sviluppato in
gerarchia.
Lo Stato
quindi rivendica il monopolio della forza, ma non lo consegue, anche se i suoi
meccanismi di riproduzione della legittimazione portano anche alla produzione e
riproduzione di forza e violenza (si pensi alla banalità del male dell’art. 41
bis dell’ordinamento penitenziario).
Esistono
istituti giuridici oggi vigenti, in grado di esprimere e descrivere questa
situazione materiale, caratterizzata dalla rivendicazione dell’appropriazione
della forza da parte di un soggetto collettivo organizzato?
Almeno
due, uno penalistico, l’altro civilistico-amministrativistico, l’uno proiezione
dell’altro nella proprio ambito. Il primo è rappresentato dall’art. 416 bis del
codice penale italiano, il secondo dall’istituto europeo dell’abuso di
posizione dominante, sol che si consideri che anche la spartizione territoriale
dei mercati è considerata abuso di posizione dominante. In base all’art. 416
bis, c. 3, “L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte
si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di
assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire
in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività
economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per
realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di
impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o
ad altri in occasione di consultazioni elettorali”. L’ultimo comma precisa che
“Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra, alla
‘ndrangheta e alle altre associazioni, comunque localmente denominate anche
straniere, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo
perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso”.
Il testo è quello successivamente modificato. Ad esempio, si è sentita
successivamente l’esigenza di includervi esplicitamente la ‘ndrangheta e
precisare che l’associazione può essere costituita anche da stranieri, benchè
non ve ne fosse bisogno, dato che la norma è omnicomprensiva. Cascami di
sociologia.
Ora,
analizzando l’articolo si individua esattamente un soggetto organizzato e
armato, comunque denominato, il quale rivendichi il proprio dominio anche
economico sul territorio, approfittando della sua forza di intimidazione. Dalla
prevenzione generale e speciale della minaccia dell’uso della forza e della
privazione della libertà personale rappresentata dal diritto penale e
quasi-penale, all’irresistibile pressione fiscale (i dati sull’evasione sono
artatamente gonfiati, dato che, con gli studi di settore, con l’inversione
dell’onere della prova, il solve et
repete e l’intreccio delle banche dati, l’amministrazione conosce vita,
morte e miracoli dei contribuenti), lo Stato fa proprio questo, e che altro se
non gestire con la forza, sia pure della sua legge, concessioni,
autorizzazioni, appalti e servizi, in dispregio della libera concorrenza? E si
noti che le proposte più aggiornate, ad esempio quella di Giovanni Fiandaca,
vanno nella direzione di togliere qualsiasi arcaico riferimento “culturale” e
di insediamento territoriale all’art. 416 bis. Così quando emerge la vicenda di
“Mafia Capitale”, noi sappiamo che non è vero che “la mafia è arrivata a Roma”,
come si dice, ma che anche a Roma esistono organismi del tutto autonomi, che
sono rispondenti alla fattispecie delineata dal 416 bis. E altri ve ne sono,
presumibilmente, in molti luoghi.
Lo Stato
è quindi anzitutto un illecito penale, per il diritto vigente italiano, che l'ha messo fuori legge: sul piano formale, con l'art.416 bis, la Repubblica Italiana si è autodissolta.
Mentre è un illecito civile-amministrativo per il diritto europeo e di derivazione comunitaria europea.
Mentre è un illecito civile-amministrativo per il diritto europeo e di derivazione comunitaria europea.
Dispone
infatti Articolo 102, ex art. 82, del Trattato istitutivo: “È incompatibile con
il mercato interno e vietato, nella misura in cui possa essere pregiudizievole
al commercio tra Stati membri, lo sfruttamento abusivo da parte di una o più
imprese di una posizione dominante sul mercato interno o su una parte sostanziale
di questo.
Tali
pratiche abusive possono consistere in particolare:
a)
nell'imporre direttamente od indirettamente prezzi d'acquisto, di vendita od
altre condizioni di transazione non eque;
b) nel
limitare la produzione, gli sbocchi o lo sviluppo tecnico, a danno dei
consumatori;
c)
nell'applicare nei rapporti commerciali con gli altri contraenti condizioni
dissimili per prestazioni equivalenti, determinando così per questi ultimi uno
svantaggio per la concorrenza;
d) nel
subordinare la conclusione di contratti all'accettazione da parte degli altri
contraenti di prestazioni supplementari, che, per loro natura o secondo gli usi
commerciali, non abbiano alcun nesso con l'oggetto dei contratti stessi”.
E’
esattamente quanto fa lo Stato, quantomeno quando amministra il bene economico
e giuridico “forza”, a tacere del diritto pubblico dell’economia, ovviamente:
fissa unilateralmente “prezzi” e “tariffe”, ossia, con Oliver Wendell Holmes e
tutto il realismo giuridico fino a Tarello, disposizioni e norme. Limita l’accesso
all’esercizio della forza legittima ad altri operatori, svantaggiandoli nella
concorrenza, qualificandole ad esempio “associazioni criminali” pur quando
queste non fanno altro che, in piccola scala, quello che lo Stato fa su grande,
guerre comprese e in primo luogo. Lo Stato, anche democratico, del resto, impone
“pacchetti” di prestazioni, come i programmi elettorali del tipo “prendi tutto
o respingi tutto” (il che non è consentito a Microsoft), e ciò anche ben al di
là di quanto promesso in campagna elettorale, offerta al pubblico o invitatio ad offerendum, dato che
secondo la giurisprudenza i cittadini nei confronti della politica non vantano né
diritti soggettivi, né interessi legittimi, sicché la politica è legibus soluta.
Ove tale
ricostruzione apparisse semplicistica, dato che presuppone un’idea di Stato
come un monolite quale nella realtà non sarebbe, sicché ricadremmo nella
proposta di Sabino Cassese, secondo il quale lo Stato sarebbe costituito da una
pluralità di entità che condividono una cassa comune, varrebbe comunque l’altra
ipotesi di diritto comunitario della concorrenza, quella delle intese. In base all’art. 101 (ex art.
81) del Trattato, infatti, “Sono incompatibili con il mercato interno e vietati
tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e
tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati
membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o
falsare il gioco della concorrenza all'interno del mercato interno ed in
particolare quelli consistenti nel:
a)
fissare direttamente o indirettamente i prezzi d'acquisto o di vendita ovvero
altre condizioni di transazione;
b)
limitare o controllare la produzione, gli sbocchi, lo sviluppo tecnico o gli
investimenti;
c)
ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento;
d)
applicare, nei rapporti commerciali con gli altri contraenti, condizioni dissimili
per prestazioni equivalenti, così da determinare per questi ultimi uno
svantaggio nella concorrenza;
e)
subordinare la conclusione di contratti all'accettazione da parte degli altri
contraenti di prestazioni supplementari, che, per loro natura o secondo gli usi
commerciali, non abbiano alcun nesso con l'oggetto dei contratti stessi”.
Si dirà
anzitutto che lo Stato non è un’ “impresa”. E in effetti, lo Stato non cerca consumatori
da soddisfare, dato che discrimina su chi possano essere i propri sudditi da
tassare, limitando l’immigrazione, ad esempio. Ma, a parte ciò, si è visto che
lo Stato svolge, anzi impone volenti o nolenti, una grande quantità di
prestazioni e servizi di natura aziendale, valutabili sotto il profilo
economico e della relativa efficienza. Per altro verso, occorre rifarsi a tale
proposito anche alla nozione comunitaria di Organismo di Diritto Pubblico, che,
per come l’abbiamo intesa noi, rappresenta un soggetto dotato di facoltà
pubblicistiche, al quale si applica l’eccesso di potere (l’abuso di posizione
dominante delinea fattispecie tutte omologhe ai sintomi dell’eccesso di
potere), ma che opera quale imprenditore in concorrenza con altri operatori,
pur altrettanto dotati di potestà pubblicistiche. O almeno questo è il modello
verso il quale si tende.
La
tendenza evolutiva dell’ordinamento del sistema è cioè in questa direzione, di
fondere elementi civilistici, ad esempio il principio di buona fede, con
elementi pubblicistici, come appunto l’eccesso di potere, fino a renderli
indistinguibili.
Ora, “gli
accordi o decisioni, vietati in virtù del presente articolo, sono nulli di
pieno diritto”, quindi anche come “intesa”, e non solo come abuso di posizione
dominante, lo Stato è nullo, è void.
Non ci
dilunghiamo sulle eccezioni, che confermano però che solo dimostrandosi
efficiente e satisfattivo lo Stato potrebbe rivendicare ancora una residua
liceità, ma ciò lo espone alla verifica sul campo, non al mistico a priori della sovranità.
A tale
proposito, torniamo alla classificazione nozickiana. Come è noto, Nozick
distingue la fase dell’agenzia dominante, quella dello Stato ultraminimo e quella
dello Stato minimo. Posto che il monopolio della forza è “impossibile”, diremmo
che lo Stato non va oltre la fase dell’agenzia dominante, salvo che esso abusa
di tale situazione di privilegio, imponendosi indebitamente agli indipendenti
(per stare ancora alle categorie nozickiane) pretendendosi e autoqualificandosi “Stato”, prima ultraminimo
e poi minimo.
Lo Stato
esercita lo ius utendi et abutendi,
si direbbe, come l’allodio medievale e proudhoniano. Senonché l’allodio, oltre
a essere di minuta dimensione, non pretende sovranità, e anzi la presuppone.
Mentre lo Stato accetta fin qui come spazio giuridico più ampio rispetto al
proprio solo il diritto internazionale, persistendo nella rivendicazione della
sovranità sul proprio territorio. Per questo non è esatto configurare, come
taluno ha fatto, lo Stato della Città del Vaticano come allodio, dato che il
Vaticano è sovrano e superiorem non
recognoscens, salvo appunto l’ordinamento internazionale, se si accoglie la
visione kelseniana del diritto internazionale quale fonte gerarchicamente
superiore.
Non vi è
dubbio che sono in corso importanti processi di dissoluzione della sovranità,
ai quali si oppongono nazionalitari di destra e di sinistra. Il più rilevante
appare oggi il processo di trattativa in corso per il Ttip, Transatlantic Trade
and Investment Partnership. L’innovazione a nostro avviso più significativa è
la previsione di arbitrati privati per controversie di colossale importanza tra
Stati e multinazionali, arbitrati che investono questioni di fondo delle
politiche nazionali. Naturalmente i nazionalitari gridano allo scandalo, mentre
la questione va correttamente inquadrata. Lo Stato accetta ora non solo il
diritto internazionale, ma anche il mercato, quale spazio giuridico più ampio
rispetto al proprio. Tuttavia di che “mercato” stiamo parlando?
Noi in
passato abbiamo utilizzato la nozione di “idiocrazia”, da idion, privato, per descrivere un sistema nel quale grande privato
e Stato sono a tal punto compenetrati da risultare indistinguibili: complesso
militare-industriale, industria dell’energia ampiamente sussidiata dal petrolio
in giù, che ovviamente si giova di concessioni, e di concessioni di privilegio,
per la ricerca e la trivellazione; grandi concessionari di opere pubbliche e
della ricostruzione bellica; istituti finanziari too big too fail, costretti al gioco sporco dei titoli spazzatura
dal divieto di free coinage; sistema
delle assicurazioni per infortuni e previdenziali obbligatorie; industria
farmaceutica la cui prosperità dipende dagli indirizzi dei sistemi sanitari
nazionali; colossi dell’informatica protetti da brevetti e copyright, istituti, lo si dimentica spesso, non del “capitalismo”,
ma statalisti e nati come patenti regie.
Ora, a
fronte dell’istituto dell’arbitrato del Ttip, scaturiscono due ordini di
considerazioni. Da un lato, si viene a introdurre un elemento di contraddizione
dialettica all’interno del sistema idiocratico, dato che multinazionali e Stati
recuperano, almeno in sede giudiziale, la propria autonoma soggettività,
rimettendo ad arbitri professionali la soluzione delle controversie che insorgessero
tra di loro.
Dall’altro
lato non può non sfuggire, però, che tale auspicata denazionalizzazione vale
solo per alcuni e non per tutti: solo per i grandi privati e non per i piccoli,
il cui rapporto con lo Stato è di solito rapporto con burocrazie, guardie di
finanza e polizie di ogni sorta, nei confronti delle quali non può vantare
alcun diritto potestativo di partecipazione ai relativi procedimenti
amministrativi. Non si sa se perché queste sono dotate e titolari di poteri
vincolati, o fin troppo discrezionali.
Ne
scaturisce l’idea di un diritto di classe, liberale e forse addirittura
libertario, per alcuni, i grossi, e autoritario e paternalistico per i più, i
piccoli. Una prima modestissima proposta in senso ascendente potrebbe essere
rappresentata dall’inclusione degli interessi diffusi in quegli arbitrati,
sicché le questioni sanitarie, ambientali, etc. non siano devolute agli
interessi di pochi, ma siano ampliate ad interventi ad adiuvandum o ad opponendum
dei cittadini. O prevedere addirittura l’azione popolare.
D’altra
parte –concludiamo con una nota di ottimismo-, non sarebbe la prima volta,
nella storia, che i privilegi di alcuni di oggi possano diventare i
diritti di tutti domani, come è accaduto
via via nel corso dei secoli con la Magna
Charta, nata per tutelare i diritti dei baroni e finita per assicurare,
precedente dopo precedente, i diritti di tutti.
E non si dimentichi mai che, in base all’art. 20, c. 2, della Dichiarazione universale dei diritti umani, “nessuno può essere costretto a far parte di un’associazione”, E ognuno sa, dalle nostre parti, che lo Stato è l'unica associazione ad appartenenza necessaria esistente.
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