di Fabio Massimo Nicosia
Occorre
muovere da un apparente assioma: la Terra è originariamente di tutti e non di
nessuno, è res communis e non res nullius. Perché si tratta di un
assioma solo apparente? Perché in realtà si tratta del corollario di un
ragionamento articolato.
In
conclusione di tale ragionamento si ricava appunto che la Terra è comunione di
tutti, almeno originariamente. E, come si vede, il fondamento di tale
conclusione è, a dispetto di quello che si potrebbe pensare, libertario e
individualista.
Questa
è la base logica-teorica della rendita di esistenza. La rendita di esistenza è
quell’istituto per il quale un essere umano, per il solo fatto di esistere,
essendo comunque comunista in senso civilistico dei beni della Terra, ha
diritto a una rendita ricardiana sulla propria quota di mondo.
Per
Ricardo, infatti, “Rendita è la parte del prodotto della terra corrisposta al
proprietario quale compenso dell’uso dei poteri originari e indistruttibili del
suolo” ; e poiché, nel geo-comunismo originario, tutti sono comproprietari pro
quota del suolo, quella rendita spetta a tutti in egual misura, quale compenso
per le attività di chi su quel suolo le pratica.
In sostanza, si tratterebbe di individuare il valore di mercato del complesso degli usi attuali del mondo e, su tale base, calcolare quotidianamente (attraverso una vera e propria borsa) il valore della nuda proprietà, dividendo il valore complessivo per il numero degli abitanti della Terra.
Ognuno sarebbe proprietario di una quota di mondo, e tale quota, uguale per tutti, avrebbe un valore costantemente aggiornato. I possessori di terra sarebbero tenuti a versare la propria quota in proporzione al valore di mercato del bene particolare posseduto, alle sue potenzialità ed effettività produttive, che del resto è retrostante di provvista monetaria appartenente alla comunità.
In sostanza, si tratterebbe di individuare il valore di mercato del complesso degli usi attuali del mondo e, su tale base, calcolare quotidianamente (attraverso una vera e propria borsa) il valore della nuda proprietà, dividendo il valore complessivo per il numero degli abitanti della Terra.
Ognuno sarebbe proprietario di una quota di mondo, e tale quota, uguale per tutti, avrebbe un valore costantemente aggiornato. I possessori di terra sarebbero tenuti a versare la propria quota in proporzione al valore di mercato del bene particolare posseduto, alle sue potenzialità ed effettività produttive, che del resto è retrostante di provvista monetaria appartenente alla comunità.
Ulteriore
fondamento della rendita di esistenza è costituito dal fatto che, mentre oggi,
come rileva David Graeber, ognuno di noi nasce già gravato da un
"debito" nei confronti dei potenti, e per sovrammercato paghiamo
imposte in favore di chi ci comanda, all'opposto dovremmo essere noi compensati
per il fatto che prestiamo consenso a un élite di potere, la quale
evidentemente se ne giova, e invece appunto siamo noi a pagare loro, e non loro
a indennizzare noi per il danno che subiamo in conseguenza della privazione
delle nostre libertà e autonomia.
Chi ritenesse che, prevedendo il diritto alla rendita fondiaria riferita ai beni della terra del mondo, gli individui sarebbero disincentivati ad agire, realizzando produzione autonomamente, non conoscerebbe la psicologia degli individui. O almeno della loro componente creativa, che non verrebbe certo annientata dalla consapevolezza di poter contare su di un paracadute per il caso di difficoltà o di indigenza.
Esistono oggi fondamenti di diritto positivo e di moderna dottrina economica all'idea che il mondo sia di proprietà comune, nel senso indivisibilmente di ciascuno, originariamente: sul piano del diritto positivo, occorre far riferimento al diritto spaziale: secondo questa branca del diritto internazionale, lo spazio è patrimonio comune dell'umanità.
E' in effetti piuttosto stravagante che l'umanità sia comproprietaria della Luna, di Marte, di Giove e di Saturno, ma non della... Terra, ossia del pianeta sul quale vive. Costituiscono, del resto, patrimonio comune dell'umanità (common heritage of mankind) i fondali degli oceani, e rappresenta nozione che va al di là della stessa res communis omnium, che viene riconosciuta all'alto mare.
Chi ritenesse che, prevedendo il diritto alla rendita fondiaria riferita ai beni della terra del mondo, gli individui sarebbero disincentivati ad agire, realizzando produzione autonomamente, non conoscerebbe la psicologia degli individui. O almeno della loro componente creativa, che non verrebbe certo annientata dalla consapevolezza di poter contare su di un paracadute per il caso di difficoltà o di indigenza.
Esistono oggi fondamenti di diritto positivo e di moderna dottrina economica all'idea che il mondo sia di proprietà comune, nel senso indivisibilmente di ciascuno, originariamente: sul piano del diritto positivo, occorre far riferimento al diritto spaziale: secondo questa branca del diritto internazionale, lo spazio è patrimonio comune dell'umanità.
E' in effetti piuttosto stravagante che l'umanità sia comproprietaria della Luna, di Marte, di Giove e di Saturno, ma non della... Terra, ossia del pianeta sul quale vive. Costituiscono, del resto, patrimonio comune dell'umanità (common heritage of mankind) i fondali degli oceani, e rappresenta nozione che va al di là della stessa res communis omnium, che viene riconosciuta all'alto mare.
La nozione moderna di dottrina economica, alla quale si faceva riferimento è quella di capitale naturale. Il capitale naturale ha una sua attitudine alla valutazione, ed è valore necessariamente di tutti, almeno come base, quindi a rigore consente di ipotizzare una rendita (fondiaria, per dire così) a vantaggio di ognuno in quanto "comunista" (in senso civilistico) del suolo, per le ragioni di matrice "libertaria" sopra descritte.
La rendita di esistenza, così concepita, non è un istituto intrinsecamente statalistico (come lo è il reddito di cittadinanza previsto in molti Paesi d’Europa), tuttavia non v’è dubbio che, in una fase di transizione, dello stesso debba farsi carico lo Stato. Si oppone di solito a tale genere di proposte che lo Stato non avrebbe fondi sufficienti per far fronte a un simile dispendio di costi. Ma si tratta di una mistificazione, come illustrerò.
Ma
vediamo prima la ragione storico-politico dell’istituto che si viene
proponendo. Si dice che, in conseguenza dei processi di automazione in corso,
ad esempio negli Stati Uniti, nei prossimi anni, il 47% dei posti di lavoro
verrà sostituito dalle macchine; si pensi che sono già in fase avanzata di
studi gli aerei senza pilota. Infatti
ciò non vale solo per i lavori manuali o di basso livello, ma anche per
le professioni intellettuali, che trovano in Internet un grande strumento di
concorrenza.
Possiamo cioè immaginare un futuro senza giudici e senza avvocati, senza commercialisti e senza consulenti del lavoro, e ben pochi ne sentirebbero la mancanza. E magari la guerra la farebbero i robot tra di loro, se ai droni di attacco si affiancheranno i droni di difesa.
Possiamo cioè immaginare un futuro senza giudici e senza avvocati, senza commercialisti e senza consulenti del lavoro, e ben pochi ne sentirebbero la mancanza. E magari la guerra la farebbero i robot tra di loro, se ai droni di attacco si affiancheranno i droni di difesa.
Sicché
tutte le invocazioni a difesa del posto del lavoro, alla lotta contro la
disoccupazione, appaiono ormai fuori tempo e reazionarie, come reazionarie da
moltissimo tempo appaiono le politiche sindacali, tutte tese a difendere
un’etica del lavoro, perniciosa e oramai senza ragion d’essere, come
argomentarono, in tempi assai lontani Paul Lafargue e Bertrand Russel, con le
loro apologie dell’ozio.
Del tutto illusorie appaiono perciò le affermazioni di alcuni, secondo le quali il mercato, una volta persi i posti di lavoro, ne creerebbe di nuovi. A parte il fatto che non necessariamente ne creerebbe per chi il lavoro l’ha perso, ciò poteva forse valere una volta, ma non oggi, dato che oggi, e sempre di più in futuro, assistiamo a una rivoluzione strutturale nella direzione del sempre meno lavoro, e questo francamente non mi sembra un male, se entriamo nell’ordine di idee di scindere concettualmente “reddito” (rectius: rendita) da “lavoro”.
Del tutto illusorie appaiono perciò le affermazioni di alcuni, secondo le quali il mercato, una volta persi i posti di lavoro, ne creerebbe di nuovi. A parte il fatto che non necessariamente ne creerebbe per chi il lavoro l’ha perso, ciò poteva forse valere una volta, ma non oggi, dato che oggi, e sempre di più in futuro, assistiamo a una rivoluzione strutturale nella direzione del sempre meno lavoro, e questo francamente non mi sembra un male, se entriamo nell’ordine di idee di scindere concettualmente “reddito” (rectius: rendita) da “lavoro”.
Quello che conta è che le persone abbiano di che vivere, non che
abbiano di che lavorare, magari in aziende decotte, intasando strade, facendo i
pendolari, inquinando, intristendosi, e chi più ne ha più ne metta. Ovvero
realizzando opere pubbliche keynesiane dannose, come, solo per stare a un piccolo ma indicativo esempio, le inutilissime ma
costosissime rotonde che, negli anni scorsi, hanno invaso le nostre città.
Ma,
si diceva, non ci sarebbero le risorse per raggiungere un simile risultato. A
parte il fatto che lo Stato sociale burocratico che oggi conosciamo è
estremamente costoso, ma ha anche il difetto di essere selettivo e autoritario,
ed è tutto da vedere che sia meno costoso dell’ipotesi di una rendita di
esistenza universale ed eguale per tutti, l’idea che lo Stato sia
“povero” costituisce un inganno storico. Si tratta di un esempio di quelli che,
già nel XIX secolo, Amilcare Puviani chiamava “occultamenti di ricchezza”.
Già
nel 1896, infatti, Antonio Labriola scriveva che, con l’evoluzione storica, lo
Stato “è dovuto divenire una potenza economica”, in particolare “nella diretta
proprietà del demanio”, oltre che “nella razzia, nella preda, nell’imposizione
bellica”.
Si trattava dell’eredità dello Stato patrimoniale, di quelli che già per Adam Smith erano i beni di sua proprietà per il sostentamento del principe, oltre che per gli spostamenti delle truppe.
Si trattava dell’eredità dello Stato patrimoniale, di quelli che già per Adam Smith erano i beni di sua proprietà per il sostentamento del principe, oltre che per gli spostamenti delle truppe.
Oggi
questo demanio è sterminato, ma, questo è il punto, non viene contabilizzato,
oltretutto in ispregio al principio di “veridicità” del bilancio: strade e
autostrade, porti e aeroporti, impianti energetici, beni storici e artistici,
coste, acque territoriali, fiumi, laghi, risorse naturali degli enti locali,
miniere, cave, armamenti, strade ferrate, l’etere, che viene dato in
concessione alle emittenti televisive per scarso corrispettivo, così come le
coste vengono “privatizzate” con concessioni novantanovennali per pochi denari.
E poi nemmeno le corpose riserve auree (da noi 2.500 tonnellate) vengono contabilizzate dovutamente.
Ai beni materiali devono essere aggiunti poi i beni immateriali, i "diritti di proprietà intellettuale". Al giorno d'oggi, brevetti, marchi e copyright rappresentano parte considerevole, anche maggioritaria, nello stato patrimoniale delle grandi aziende: basti pensare che "Dolce & Gabbana" non sarebbe "Dolce & Gabbana" senza il marchio "Dolce & Gabbana": senza questo marchio, non varrebbe più di OVS, e il marchio, nell'attuale sistema giuridico, è una concessione amministrativa di un monopolio protetto da polizia e magistratura: quindi, contrariamente a quanto si ritiene comunemente, "Dolce & Gabbana" sono ricchi e potenti non per meriti propri, ma per concessione del monopolio di Stato.
E già è strano che il marchio "Dolce & Gabbana" valga miliardi di euro per "Dolce & Gabbana", e nulla per i cittadini che glielo hanno concesso, dato che il "potere di rilasciare marchi" non viene contabilizzato.
Ma il punto ai nostri fini è forse soprattutto un altro; e cioè che lo Stato è titolare di simili diritti immateriali in massimo grado: "Roma Capitale", "Monte Bianco", "Comune di Milano", "Regione Lombardia", "Colosseo", "Valle dei Templi", "Lago di Garda", sono altrettanti "marchi", che non vengono valorizzati in alcun modo (e infatti il logo del Colosseo è stato dato in licenza a un privato per nullo corrispettivo).
Si pensi al possibile marchio "Teatro della Scala di Milano", quanto potrebbe valere. Invece la Scala è una voragine in danno del contribuente, perché lo statuto della Scala ne tutela, non si sa come, il "nome", ma non prevede il marchio, e quindi non lo sfrutta.
E si pensi a tutta la vicenda della Grecia, accusata di avere "truccato" i conti per entrare nell'euro: semmai li ha truccati al contrario, come tutti gli Stati, del resto, visto quanto può valere il Partenone, e quindi il suo marchio, come si è visto proprio in quella vicenda, che ha visto il Partenone e il porto del Pireo oggetto di attenzioni altrui, non certo disinteressate.
Lo Stato e gli altri enti territoriali, disponendo di simili "marchi", potrebbe distribuire infinite royalties ai cittadini, invece i cittadini vengono chiamati a pagare imposte elevatissime per mantenere individui incapaci di valorizzare l'infinito patrimonio che gestiscono.
Ai beni materiali devono essere aggiunti poi i beni immateriali, i "diritti di proprietà intellettuale". Al giorno d'oggi, brevetti, marchi e copyright rappresentano parte considerevole, anche maggioritaria, nello stato patrimoniale delle grandi aziende: basti pensare che "Dolce & Gabbana" non sarebbe "Dolce & Gabbana" senza il marchio "Dolce & Gabbana": senza questo marchio, non varrebbe più di OVS, e il marchio, nell'attuale sistema giuridico, è una concessione amministrativa di un monopolio protetto da polizia e magistratura: quindi, contrariamente a quanto si ritiene comunemente, "Dolce & Gabbana" sono ricchi e potenti non per meriti propri, ma per concessione del monopolio di Stato.
E già è strano che il marchio "Dolce & Gabbana" valga miliardi di euro per "Dolce & Gabbana", e nulla per i cittadini che glielo hanno concesso, dato che il "potere di rilasciare marchi" non viene contabilizzato.
Ma il punto ai nostri fini è forse soprattutto un altro; e cioè che lo Stato è titolare di simili diritti immateriali in massimo grado: "Roma Capitale", "Monte Bianco", "Comune di Milano", "Regione Lombardia", "Colosseo", "Valle dei Templi", "Lago di Garda", sono altrettanti "marchi", che non vengono valorizzati in alcun modo (e infatti il logo del Colosseo è stato dato in licenza a un privato per nullo corrispettivo).
Si pensi al possibile marchio "Teatro della Scala di Milano", quanto potrebbe valere. Invece la Scala è una voragine in danno del contribuente, perché lo statuto della Scala ne tutela, non si sa come, il "nome", ma non prevede il marchio, e quindi non lo sfrutta.
E si pensi a tutta la vicenda della Grecia, accusata di avere "truccato" i conti per entrare nell'euro: semmai li ha truccati al contrario, come tutti gli Stati, del resto, visto quanto può valere il Partenone, e quindi il suo marchio, come si è visto proprio in quella vicenda, che ha visto il Partenone e il porto del Pireo oggetto di attenzioni altrui, non certo disinteressate.
Lo Stato e gli altri enti territoriali, disponendo di simili "marchi", potrebbe distribuire infinite royalties ai cittadini, invece i cittadini vengono chiamati a pagare imposte elevatissime per mantenere individui incapaci di valorizzare l'infinito patrimonio che gestiscono.
Eppure
tutti dicono che lo Stato è “povero”, immerso nel debito, che non ha di che spendere: eppure stranamente, quando la
politica vuole, lo fa. I beni demaniali sono null'altro che il famoso "territorio", di cui parlano i manuali di diritto costituzionale, per indicare l'ambito di sovranità dello Stato, incarnano quel potere sovrano, sono gli strumenti della supremazia, quelli
che fanno di uno Stato uno Stato: però lo Stato sarebbe anche “povero”, perché questo bene immane, che è il suo territorio sovrano, non varrebbe assolutamente nulla, in termini economici: incredibile.
Come ciò sia possibile merita una spiegazione, perché avrà anche una spiegazione il fatto che lo Stato rivendica il monopolio monetario, ma anche un’imposizione fiscale elevatissima, pur senza averne come si vede alcun bisogno, alla quale corrispondono servizi a volte modesti, a volte faraonici in favore di qualcuno.
Come ciò sia possibile merita una spiegazione, perché avrà anche una spiegazione il fatto che lo Stato rivendica il monopolio monetario, ma anche un’imposizione fiscale elevatissima, pur senza averne come si vede alcun bisogno, alla quale corrispondono servizi a volte modesti, a volte faraonici in favore di qualcuno.
Vige
in proposito una prassi, che se vi fosse consapevolezza verrebbe ridotta a
“trucchetto contabile”: il valore di quei cespiti non è iscritto nel bilancio
dello Stato! Lo Stato è ricchissimo e non lo sa, o finge di non saperlo e non
vuole che si sappia. Si comporta come un miliardario che possiede otto ville,
il quale vantasse la propria povertà, perché delle ville vedesse solo i… costi
di manutenzione.
L’art.
2424 c.c. impone che i cespiti immobiliari siano iscritti in bilancio
all’attivo, ma lo Stato non applica a sé il codice civile, è il “diritto reale”
attraverso il quale istituzionalmente si pratica lo ius abutendi della sua dominante posizione, e quindi non iscrive
quei beni, perché non li tratta da ricchezze quali sono, ma da oneri, da un
lato, e da immateriale scettro mistico, dall’altro. Ma la tendenza evolutiva
dell’ordinamento giuridico va nel senso di applicare anche allo Stato i
principi civilistici, sicché quei pretesti non convincono più.
In
base a quale ordine di idee razionale, una società privata iscrive in bilancio
il valore di un terreno, e quel valore dovrebbe volatilizzarsi, una volta che
il terreno fosse espropriato da una pubblica amministrazione? Il valore
d’estimo resta evidentemente lo stesso.
In realtà, infatti, da qualche anno la legge prescrive che lo stato patrimoniale dello Stato proceda alla contabilizzazione del valore dei beni demaniali, ma essa avviene in termini assolutamente risibili, con valori a dir poco lontanissimi da quelli, così importanti, reali. E lo stesso vale per i diritti immateriali, che pure sono richiamati nello stato patrimoniale dello Stato, ma senza alcuna serietà, nemmeno lontanamente scientifica: quindi, niente royalties per i cittadini, e in compenso tasse a non finire.
In realtà, infatti, da qualche anno la legge prescrive che lo stato patrimoniale dello Stato proceda alla contabilizzazione del valore dei beni demaniali, ma essa avviene in termini assolutamente risibili, con valori a dir poco lontanissimi da quelli, così importanti, reali. E lo stesso vale per i diritti immateriali, che pure sono richiamati nello stato patrimoniale dello Stato, ma senza alcuna serietà, nemmeno lontanamente scientifica: quindi, niente royalties per i cittadini, e in compenso tasse a non finire.
Se
tutti i beni suddetti fossero iscritti a valore di mercato, diciamo con il criterio del fair value, nel bilancio dello
Stato, questo andrebbe immediatamente all’attivo (perché in uno stato patrimoniale beni immobili e debito si compensano), e cesserebbe la litania della
“voragine dei conti pubblici”, che giustificherebbe l’alta tassazione, oltre al
chiacchiericcio televisivo e alle stucchevoli controversie con l’Unione
europea.
E
quei valori diverrebbero innanzitutto retrostante di provvista monetaria (vale più il
contenuto del caveau di una qualunque banca centrale, o quello del Louvre? I
monumenti di Roma o le riserve della Banca d’Italia?) Nemmeno le corpose
riserve auree, come detto, vengono iscritte adeguatamente nel bilancio della Banca d'Italia, dato che viene
attribuito loro solo un valore “psicologico” a sostegno del prestigio della
sovranità statale.
Il gold-standard non verrebbe più sostituito dalla mera moneta a corso forzoso, la fiat-money creata dal nulla, ma da una moneta fondata sul groundstandard, sul valore della terra (di cui l’oro del resto è solo una piccola parte), per celia si potrebbe addirittura, in prospettiva futura, parlare di un universestandard, dato che, come già ricordato, per il diritto aeronautico e spaziale, lo spazio è "patrimonio comune dell'umanità".
Il gold-standard non verrebbe più sostituito dalla mera moneta a corso forzoso, la fiat-money creata dal nulla, ma da una moneta fondata sul groundstandard, sul valore della terra (di cui l’oro del resto è solo una piccola parte), per celia si potrebbe addirittura, in prospettiva futura, parlare di un universestandard, dato che, come già ricordato, per il diritto aeronautico e spaziale, lo spazio è "patrimonio comune dell'umanità".
A
questo punto si delinea un bivio tra due scenari: uno statalista, l’altro
libertario. Se da un lato valorizzare le ricchezze pubbliche può far pensare a
uno Stato-monstrum, dall’altro, il valore di una rendita di esistenza così fondato (si pensi ancora alla distribuzione delle royalties), sarebbe
talmente elevato che, in prospettiva, lo Stato cadrebbe da sé, dato che ognuno
non avrebbe bisogno che di agenzie di intermediazione monetaria e lo Stato non
avrebbe più nulla da fare, se non proporre un documento contabile, indicativo delle ricchezze comuni.
Saremmo
di fronte a una contraddizione dialettica tra l’esercizio di un potere, distribuire
denaro, e il carattere “suicida” di tale esercizio, che consentirebbe a ognuno
di ignorare lo Stato per tutti gli altri servizi che lo Stato pretendesse di
fornire a cittadini resi ricchi e ampiamente autosufficienti. Il tutto, si
badi, senza necessità di marxianamente nazionalizzare alcun bene, dato che
quei beni sono già dello Stato, anche se
dissimulati.
Lo
Stato verrebbe quindi ridotto, come detto, a un documento, il suo bilancio, che sarebbe un
simulacro, un semplice rendiconto dell’avvenuto trasferimento di valore, e
quindi di potere, alla società.
Pagare per andare in spiaggia è come pagare per vedere le gambe della moglie: si paga per usufruire di beni demaniali, quando dovremmo essere noi a essere pagati per il loro impiego, trattandosi di beni già nostri. Paghiamo il canone radiotelevisivo, quando dovremmo essere pagati noi, per l'uso dell'etere che è nostro.
La vecchia dottrina parlava di un principio di “invalutabilità” dei beni demaniali, “che si spieg(herebbe), come dice la manualistica di Contabilità dello Stato, considerando l'essenza dei beni demaniali e la loro rilevata strumentalità rispetto ai fini dell'ente al quale sono affidati” .
In altre parole, i beni demaniali vengono fatti afferire alla sovranità e vengono perciò sottratti al mercato e al suo giudizio. E infatti, prosegue questa manualistica, “I beni demaniali non vengono valutati, in conformità al principio che essi sono extra commercium e che lo Stato ne può disporre soltanto ricavandone le utilità di cui sono suscettibili ma non può considerarli come elementi attivi del suo patrimonio”.
Dal che si ricava che
la sovranità statuale, in tali casi, esprime il proprio dominio anche, e forse
soprattutto, attraverso un substrato materiale oltremodo consistente -basti por
mente all’art. 822 c.c.- e non solo, come solitamente si ritiene,
sull’”opinione” e l’astrazione: il suo carisma è nutrito di carne, non solo di
credenze.
Del
resto, se una società privata per azioni iscrive in bilancio all’attivo i
propri “beni immobili” (art. 2424 c.c.), e lo stesso fanno
le società in mano pubblica, non si vede perché solo lo Stato e gli altri enti
territoriali debbano ignorare di possedere beni immobili e fondiari oltretutto
immensi e immani. Se ne ricava che il bilancio dello Stato sia un bilancio
senza cespiti immobiliari, l’unico noto con tale bizzarra caratteristica; e ciò, come detto, in violazione di una specifica normativa oggi vigente.
Potrebbe
solo sorgere il dubbio che, in quanto beni demaniali astrattamente
incommerciabili, essi siano privi di valore di mercato, e che quindi sia arduo
contabilizzarli con un valore assegnato, sia pure alla “Lange” , come del resto
già avviene con la liquidazione bonaria dei sinistri da parte dei periti delle
società di assicurazione, o nelle perizie contabili; il dubbio però è privo di
fondamento, dato che i beni hanno necessariamente un valore: se un terreno ha
valore nel momento in cui è in mani private, non può cessare di possederlo a
seguito di un esproprio, o della sua conseguente apprensione alla mano pubblica
attraverso altra forma.
Del
resto, attribuire un valore a un bene demaniale e iscrivere quel valore nel
conto patrimoniale, ad esempio con il criterio del fair value, con conseguenze imprevedibili (si pensi all'etere) già
di per sé attribuisce un valore "di mercato" a quei beni: comunica
infatti un'informazione nuova, che viene fatta veicolare nel sistema, e i
mercati in generale sono indotti a prestare attenzione al nuovo evento,
influenzandone la condotta sotto il profilo psicologico, e si sa che in
economia il fattore psicologico è importante. Per quanto i beni di quella
natura, anche una volta iscritti in bilancio, rimangano "extra commercium",
se ne "grida" pubblicamente il prezzo, incidendo su azione e opinione
collettiva.
Ma
se a quei beni viene finalmente riconosciuto valore, ciò significa anche che
essi possono costituire fondamento dell'emissione, se non di obbligazioni (ed è
meglio perché l'obbligazione comporta interesse, perciò di norma induce a non
disfarsene), di certificazioni di quel valore viceversa destinate a circolare,
e quindi, in ultima analisi, di "moneta".
La cui emissione, una volta tanto, non potrebbe essere incolpata di inflazionismo, perché non si tratterebbe di moneta creata dal nulla, ma fondata su solide basi immobiliari (e immateriali, come nel caso dell'etere, oltre che dei beni di proprietà intellettuali correlati al bene fisico), che ne costituirebbero fondamento di garanzia indiscutibile nella sua consistenza.
La cui emissione, una volta tanto, non potrebbe essere incolpata di inflazionismo, perché non si tratterebbe di moneta creata dal nulla, ma fondata su solide basi immobiliari (e immateriali, come nel caso dell'etere, oltre che dei beni di proprietà intellettuali correlati al bene fisico), che ne costituirebbero fondamento di garanzia indiscutibile nella sua consistenza.
Si
dirà che una garanzia, per essere tale, deve poter essere escussa, come nel
caso degli immobili iscritti nei bilanci privati. Ma forse che l'oro dei
forzieri statali può essere escusso o lo è mai stato? Eppure è sul suo fondamento e in suo nome che
nella storia, non solo i privati, ma anche e soprattutto gli Stati hanno emesso
moneta.
Come
che sia, per fugare ogni ombra, basterebbe assegnare detti beni a una public
company, o a un Trust, nelle mani di tutti i cittadini, formalmente operante sul mercato, e
quindi soggetta al citato art. 2424 c.c., di tal che i beni acquisterebbero,
anche formalmente, commerciabilità, anche se ben difficilmente potrebbero darsi
privati in grado di acquistarli in toto, in grande, o in buona parte. Sicché si
avrebbe il duplice pregio della commerciabilità formale, che rende il bene
almeno formalmente escutibile, e della stabilità sostanziale, rendendo
possibili senza dubbio alcuno tanto la determinazione di un valore di mercato,
da iscriversi nel bilancio della public company o del Trust, quanto tutti i vantaggi
connessi alla demanialità materiale.
In
ogni caso, occorre ribadire che la circostanza che quei beni, iscritti
direttamente nel bilancio statuale o nel bilancio di una società pubblica
allegata al bilancio dello Stato, e quindi parte della finanza pubblica
allargata e del bilancio consolidato, non siano in concreto destinati alla
vendita, non comporta in sé la loro sottrazione teorica al mercato, e quindi la
loro invalutabilità, allo stesso modo in cui il bene immobile di una società
privata, il cui valore sia iscritto in bilancio, non cessa di esprimere questo
valore, pur quando esso sia di fatto volutamente immobilizzato e non vi sia
alcuna intenzione di cederlo, e quindi esso sia, in concreto, sottratto al
“mercato” solo da questo punto di vista.
In
altri termini, l’essere dotato di un valore di mercato costituisce, per un
bene, una nozione distinta dalla sua destinazione all’effettiva circolazione
nel mercato stesso in senso materiale. Con l’ulteriore vantaggio che,
iscrivendo il bene, senza cederlo, in bilancio, pubblico o privato, esso
esplica la propria capacità di esprimere il proprio valore esercizio dopo
esercizio, e non un’unica volta, all’atto della vendita.
Prendiamo
il caso dell’Autostrada del Sole: non si tratterebbe solo di contabilizzare il
colossale valore economico del bene “stradale”, ma anche e soprattutto della
sua capacità di produrre e fornire un servizio economico autonomamente
valutabile, che è quello di consentire il trasporto privato, un intensissimo
via vai che ha un valore di proporzioni “incommensurabili”; si tratta in
concreto di dotarsi di strumenti aggiornati di stima (vi sono vari istituti che
fungono da precedenti ispiratori, di utilizzo di quello che chiamiamo
"metodo Lange" di valutazione del bene, alla luce degli andamenti di
mercato: dalle perizie automobilistiche sui danni, a quelle per le indennità di
espropriazione, alle due-diligence nelle M&A tra società), che ne
consentano una contabilizzazione, che forse da sola (si pensi poi al resto:
anche solo spiagge, ma montagne, fiumi, laghi, acque costiere, usi civici e
altro) basterebbe a portare in pareggio, e oltre, il bilancio dello Stato e a
consentire di tagliar corto con la falsa polemica della bufala della “voragine
del debito”, normalmente agitata in danno delle classi deboli, e non certo dei
grandi appaltatori e concessionari di opere pubbliche, solo per fare un
esempio. Poi ci sarebbe il marchio "Autostrada del Sole", da valorizzare.
Del
resto, se di una spiaggia viene calcolato il canone di concessione, vorrà pur
dire che, quantomeno attraverso un procedimento induttivo, di quella spiaggia
sia possibile computare il valore, e lo stesso valga per l’etere e per tutti i
beni dati in concessione pubblica.
In ogni caso, inserire o no i beni demaniali e pubblici nelle poste attive del bilancio dello Stato è solo una scelta di diritto positivo -e, in quanto tale, è già stata fatta-, sicché, una volta constatati i benefici dell’opzione positiva, sarebbe demenziale rinunciarvi per miopia politica.
Ad esempio, Jacques Attali ha scritto che non esistono regole rigide e tassative per redigere un bilancio pubblico, e che l’Italia, con il suo gigantesco patrimonio monumentale e artistico, potrebbe permettersi un deficit ben superiore a quello, per fare un caso, dell’Ucraina. Ma si tratta di approccio approssimativo; perché allora, per essere più precisi, non contabilizzare direttamente quel patrimonio monumentale e artistico, invece che andare a spanne?
D'altra
parte, un radicale e liberista, Antonio De Viti De Marco, già molti decenni fa
rilevava che “Il ‘patrimonio’ dello Stato consta dei beni che lo Stato
possiede, amministra e fa valere come un qualunque privato proprietario o
industriale, sottostando alla comune legge giuridica, che regola per tutti i
cittadini il diritto di proprietà, e alla comune legge economica, che regola la
formazione del prezzo dei beni privati”: sicché, a identità di “legge
giuridica” tra bene di proprietà privata e bene di proprietà pubblica non può
che corrispondere identico criterio di formazione del relativo bilancio, con
conseguente iscrizione in esso di tutti i cespiti posseduti.
Oggi, del resto, sempre più si parla di assoggettare enti pubblici ed enti privati a un "diritto comune a pubblici e privati operatori", e non si comprende una distinzione che va solo in danno dei cittadini.
Oggi, del resto, sempre più si parla di assoggettare enti pubblici ed enti privati a un "diritto comune a pubblici e privati operatori", e non si comprende una distinzione che va solo in danno dei cittadini.
Tutto
quanto precede ci consente ora di essere più precisi, passando a delineare i
contorni di una prima prospettiva concreta, per quanto ripetutamente accennata.
Se il mondo è originariamente di tutti, e non di nessuno, è escluso, come si è
visto, che atti unilaterali di apprensione possano sottrarre beni alla
comunione, se non nei limiti dell’uso e della disponibilità di ciascuno ad acconsentire
a che tale uso avvenga: la comunione è sempre vigente, in assenza di atti
espliciti di alienazione delle quote.
Ne deriva che ognuno ha diritto a vedersi riconosciuto da parte dei singoli “proprietari” (che sarebbero solo degli usufruttuari-concessionari) un canone, per dir così, di locazione con riferimento alla propria quota di mondo, o meglio, di affitto, trattandosi di concessione di un’attività imprenditoriale, in senso lato di usufrutto di impresa. Ovvero ancora, per esprimerci in termini tecnico-economici, di una rendita per la proprietà comune della terra data appunto in uso al singolo titolare di diritto reale parziario.
Questo il fondamento filosofico, riferito a un'ipotetica situazione originaria. Oggi, invece, è lo Stato a disporre delle ricchezze più immani, ed è dallo Stato che si deve pretendere soddisfazione, consapevoli che ciò, come si è detto, comporterebbe puramente e semplicemente alla sua stessa scomparsa.
Ne deriva che ognuno ha diritto a vedersi riconosciuto da parte dei singoli “proprietari” (che sarebbero solo degli usufruttuari-concessionari) un canone, per dir così, di locazione con riferimento alla propria quota di mondo, o meglio, di affitto, trattandosi di concessione di un’attività imprenditoriale, in senso lato di usufrutto di impresa. Ovvero ancora, per esprimerci in termini tecnico-economici, di una rendita per la proprietà comune della terra data appunto in uso al singolo titolare di diritto reale parziario.
Questo il fondamento filosofico, riferito a un'ipotetica situazione originaria. Oggi, invece, è lo Stato a disporre delle ricchezze più immani, ed è dallo Stato che si deve pretendere soddisfazione, consapevoli che ciò, come si è detto, comporterebbe puramente e semplicemente alla sua stessa scomparsa.
La
necessità di una rendita di esistenza in forma monetaria si
propone in un contesto produttivistico, nel quale vi siano beni di consumo
da acquistare, sicché la produzione di ricchezze ulteriori rispetto a quelle
naturali finisca con l’attribuire un senso a quella dotazione originaria, che
può così essere spesa nel mercato particolare di quei beni di consumo.
In caso contrario, data la vastità delle risorse naturali a disposizione, non vi sarebbe nemmeno bisogno di moneta per acquisire ciò che la natura offre direttamente, e che potrebbe costituire oggetto di apprensione individuale senza alcuna mediazione altrui, o per trasformare la natura, da soli, o in unione con altri.
In caso contrario, data la vastità delle risorse naturali a disposizione, non vi sarebbe nemmeno bisogno di moneta per acquisire ciò che la natura offre direttamente, e che potrebbe costituire oggetto di apprensione individuale senza alcuna mediazione altrui, o per trasformare la natura, da soli, o in unione con altri.
Laddove
in contesto produttivistico, il superamento della logica monetaria nella
direzione della gratuità si ravvisa soprattutto nella prospettiva di
un'automazione anche diffusa e decentrata (prosumerismo, nuove fonti
energetiche, stampanti 3D, etc.), che consenta l'individualizzazione di quella
che una volta si chiamava la "presa nel mucchio".
Ora,
prendendo comunque le mosse dall’intuizione della rendita di esistenza
correlata al valore della quota di nuda proprietà della Terra spettante a
ciascun singolo individuo diviene indispensabile comprendere a quanto
effettivamente ammonti questa quota, per capire se essa rappresenti davvero per
ognuno una fonte di reddito sufficiente per sopravvivere e per vivere almeno
dignitosamente; e per far ciò occorre, evidentemente, comprendere a quanto
ammonti il valore complessivo della produzione mondiale, momento dopo momento,
della cui “impresa” ognuno sarebbe usufruttuario in comunione.
Orbene,
secondo una stima del WWF Internazionale pubblicata a pagina 2 del “Manifesto”
del 25 ottobre 2006, , competerebbero a ciascun singolo individuo la bellezza
di 2,2 “ettari globali” per individuo abitante del pianeta, il che davvero non
sembra giustificare l’attuale stato di miseria, nel quale versano oggi molti
esseri umani nel mondo, dato che lo slogan del giorno potrebbe essere ormai,
nemmeno più “tutti proprietari”, ma addirittura “tutti latifondisti”.
Stabilite
le premesse teoriche, il problema che si pone al movimento libertario è di
saper dare, almeno in una logica di second
best -nella prospettiva del free-coinage
integrale fondato sulla provvista monetaria delle risorse naturali a tutti
comuni-, una praticabilità “non statalista”, non “da Stato mondiale”, a tale
procedimento (guardando cioè già oltre la fase della transizione), per non
incorrere nelle note secche della tassazione e dello Stato sociale e dei suoi
istituti discrezionali, o meglio arbitrari, di distribuzione del reddito.
Si
potrebbero allora immaginare agenzie in concorrenza, anche con banche dati
comuni (misura antitrust, a dispetto delle apparenze) continuamente aggiornate,
le quali procedano ai conteggi, confrontabili in modo da verificarne
l’attendibilità; e garantiscano la riscossione e la distribuzione degli
importi, sicché il non contribuire andrebbe in danno quantomeno della
reputazione (Nozick parlava di un distintivo da portare all’occhiello a riprova
del versamento effettuato); per quanto non sia da escludere l’ipotesi della
riscossione coattiva su azione diretta degli interessati, una volta che quella
corresponsione sia concepita come vero e proprio diritto di tutti.
Il
che non esclude che gli stessi meccanismi di riscossione possano essere
evolutivamente superati, una volta che sia diffusamente introiettata l'esigenza
di versare spontaneamente l'importo spettante, "dovuto", o solo
"preteso" che sia, rendendo praticabile quella che oggi è una
chimera, ossia affidare alla "beneficenza" le funzioni di welfare.
Al
di là delle soluzioni pratiche, quel che conta è che un “proprietario” -in
realtà un usufruttuario- che non versi la propria quota di “rendita” ai “non
proprietari” sia considerato un possessore non “convalidato”, non avendo
acquistato dal prossimo l’astensione di questi dall’uso della forza: ma solo di
fatto, fondato cioè solo sulla sua capacità di difendere con la forza il
proprio possesso, e quindi esposto alla reciprocità e alla ritorsione, oltre
che al danno alla reputazione e alla considerazione, e quindi passibile per ciò
solo di ostracismo e boicottaggio da parte di altri individui.
In
altri termini, ciascun aspirante possessore può anche operare una valutazione
di convenienza, se pagare la quota o rinserrarsi nel bene posseduto, assoldando
magari armigeri a tutela di questo; ma, in tale ipotesi, si esporrebbe al
giudizio degli altri, assumendosene la responsabilità. Si noti, per altro
verso, che l’istituto da noi proposto, nonostante le apparenze, non solo non
costituisce imposta, ma è semmai il suo esatto contrario; dato che una
“imposizione”, un “diritto di albinaggio”, proviene da chi eserciti il
controllo individuale del territorio ed esprime il suo dominio su chi non lo
controlla; mentre nel nostro caso si tratta di un compenso dovuto proprio da
chi pretenda un controllo sul territorio, a favore di chi non lo controlli,
come compensazione per l’astensione da un impedimento da parte di costui. L’istituto è quindi civilistico e non tributaristico, cioè non pubblicistico:
c’è una corrispettività volontaria che manca nell’imposizione.
Nell’immediato,
ripetiamo, la nostra proposta si fonda sulla disponibilità di immense riserve
di beni cosiddetti demaniali, o comunque delle risorse naturali di proprietà
pubblica, oltre ai diritti di proprietà intellettuale, che ancor di più si prestano alla contabilizzazione, che fungono da corposo retrostante di provvista monetaria, tanto da subito pubblica,
quanto in prospettiva privata e sociale.
Ma
perché, anche nell’immediato, e non solo nei discorsi un po’ utopici di
prospettiva, la nostra proposta non è “statalista”, come qualcuno ci ha
rimproverato? Per i seguenti motivi, in parte già accennati.
a) Innanzitutto, corrispondere a
ciascuno direttamente una corposa rendita periodica, comporterebbe ipso facto
lo smantellamento dell’attuale stato sociale, autoritario, selettivo,
discriminatorio, e verrebbero spazzati via tutti i cosiddetti “diritti
sociali”, che sono settoriali e non sono universalizzabili (diritto al lavoro,
diritto alla salute, diritto allo studio, diritto alla casa, etc.), e che, come
ha mostrato da ultimo Guido Corso, entrano in patente contraddizione con i
diritti fondamentali di libertà;
b) In secondo luogo, non solo la nostra
proposta non comporta imposizione fiscale, ma anzi la ridurrebbe e, in
prospettiva, la estinguerebbe, in quanto non solo non necessaria, ma del tutto irragionevole e irrazionale, in quanto non ha nessun senso che il cittadino paghi in favore dello Stato, soggetto ricchissimo di risorse e conseguentemente potentissimo. Si dirà che l’indebitamento
è una forma di imposizione fiscale: ma a parte che resta da vedere se, una
volta correttamente contabilizzati i beni demaniali, il debito non risulterà in
tutto o in buona parte compensato, la differenza tra tributo e spesa è netta,
perché il primo comporta coercizione, controllo sociale, organizzazione
burocratica e poliziesca; laddove la spesa nei termini indicati, di per sé, può
anche solo consistere in un “click” del computer, per l’accredito di somme sui
conti correnti bancari dei cittadini; e comunque, a saper bene valorizzare quei beni, nel mondo di oggi soprattutto quelli immateriali, non ci sarebbe nemmeno alcun indebitamento.
c) Infine, dai punti che precedono, deriverebbe
la devoluzione al mercato e alla comunità di tutte le funzioni di servizio
pubblico, ma in un mercato costruito, si badi, su basi egualitarie, dato che la
rendita di esistenza sarebbe eguale per tutti, ferma restando la possibilità di
incrementi consensuali ulteriori, quale esito degli scambi di mercato.
Si
tratta, in definitiva, di una proposta libertaria, nella
direzione tanto della certezza del diritto, della trasparenza e del diritto all’informazione,
quanto del percorso nella direzione del deperimento del potere, quanto, in un
certo senso, della democrazia, ossia dell'uguaglianza nella distribuzione del potere e dei punti di partenza, se è vero che il mercato egualitario decentrato
è, per quanto se ne sa, il sistema più democratico tra quelli che si possano immaginare, fuori da ogni lettura verticistica e verticale dell'organizzazione sociale.
Condivido l'impostazione qui data della terra come res communis e non res nullius. Rimango però un po' perplesso o dubbioso quando dalla proprietà come res communis si fa sorgere una rendita che va a tutti singolarmente. La perplessità sorge dal fatto che un introito sorge dalla pratica di una attività e non dalla pura e semplice proprietà di un bene. Al tempo stesso condivido tutta la parte sulla fine del lavoro e sul fatto che siamo già in una situazione di post-lavoro e di post-salario. In ogni caso, uno scritto interessante e molto stimolante.
RispondiEliminaGrazie per le interessanti osservazioni. La rendita è infatti calcolata sulla redditività del suolo, non dal mero fatto della sua proprietà.
Eliminaquanto scritto, l'avevo già pensato, assertrice convinta di un potere di usurpazione dello stato che via via riesce a trasformarsi e comunque a sopravvivere per continuare a detenere la maggioranza di quote mondiali: di terra, di potere e di ricchezza. Segnalo per finire "come non lavoreremo domani" casini editore. resto in attesa del reddito svincolato dal lavoro. dal monopolio. dallo sfruttamento.
RispondiEliminagrazie per la segnalazione!
RispondiEliminaGiusto l'approccio. Manca tuttavia qualsiasi considerazione relativa a costi sociali e ambientali di produzione e consumo, le esternalità. Ovvero considerare che l'economia mondo attuale, secondo i dati del Global Footprint Network, esaurisce la "rendita annua rinnovabile" (o sostenibile) in meno di 8 mesi, generando un debito ecologico con la terra a carico delle future generazioni. Ovvero, non basta preoccuparsi del "reddito minimo": bisogna pensare al "reddito massimo" sostenibile!
RispondiEliminaDovresti vedere il nuovo articolo "Dalla rendita di esistenza all'utile universale". Grazie del contributo.
EliminaCerto che con tutte le metafore che si potevano fare, il paragone della visione delle gambe della moglie per esprimere un possesso che non necessita di pagamento, è una rovinosa caduta di stile.forse anche di significato.
RispondiEliminaconvinzione illusoria, più che caduta di stile.
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