di Fabio Massimo Nicosia
La nota espressione di Aristotele che l’uomo sia animale politico e sociale è divenuta luogo comune e, come nel caso di tutti i luoghi comuni, rischia di perdersene il significato. Tant’è che v’è persino chi, ad esempio tra i cattolici integralisti, la invoca a sostegno di qualunque intrusione statuale e autoritaria nelle più intime questioni dell’individuo.
Noi la intendiamo invece piuttosto così, nel senso che, se l’uomo è naturaliter animale sociale, ciò significa che l’uomo ha per predisposizione interesse a cooperare con gli altri uomini, piuttosto che a vivere isolato. Ciò pone naturalmente una serie di problemi, nel senso che l’uomo, si suppone, è portatore di interessi autonomi e soggettivi, distinti da quelli sociali, sicché si propone la questione se l’accento posto su questi ultimi possa massimizzare i primi, o se questi siano destinati a soccombere innanzi al prevalere del collettivo.
Il fatto che esista un che di denominato “collettivo”, distinto dai singoli soggetti che lo compongono, è tutt’altro che pacifico. Tuttavia, per quanto fondato sia l’individualismo metodologico, occorre evitare esasperazioni. Ad esempio, una squadra di calcio di undici giocatori non è la medesima cosa di undici giocatori che giochino ognuno per conto proprio. Essi si passano la palla, e hanno uno scopo comune, quello di segnare goals, obiettivo al quale tutti concorrono, ma non, si badi, necessariamente cercando di essere l’autore ciascuno di un goal, ma piuttosto ponendo i compagni in condizione di farlo. E così una mandria di bufali non è la mera sommatoria dei bufali che la compongono, ma è l’assieme delle infinite interazioni tra gli stessi.
E così il mero individualismo metodologico, nelle scienze sociali, trova forse superamento nella teoria dei giochi, in cui l’unità minima di analisi non è l’”uno”, ma il “due”, e anzi il “tre”, come abbiamo argomentato in un nostro lavoro, proponendo altresì una matrice per un gioco a tre giocatori.
Lo stesso dilemma del prigioniero, abbiamo sostenuto, è un gioco a tre giocatori, dato che oltre alle strategie dei detenuti, abbiamo quella del procuratore, per quanto questa sia normalmente ignorata in quanto tale nei resoconti.
La teoria dei giochi ci dice che qualche volta abbiamo pay-off complessivi che possono essere collettivamente preferibili rispetto a quello di ciascun singolo giocatore in altre variabili del gioco, anche se resta il problema etico, di che perché mai il singolo sacrificato dovrebbe accettare il proprio sacrificio in nome di un vantaggio complessivo superiore. E’ quello che potremmo chiamare il dilemma di Stirner, quello per cui l’egoista non ha ragione al mondo per riconoscere ad altri il diritto e il potere di imporre qualcosa a sé, in nome dell’interesse dell’altro, pur quando l’utilità complessiva sia superiore, il quale in effetti non ha titoli migliori per rivendicare alcuna preferibilità; a meno che –prosegue Stirner- non ci si associ, e assieme si conseguano benefici a un tempo egoistici e comuni.
E tuttavia il problema permane, dal punto di vista almeno dell’osservatore esterno, il quale constata che l’atteggiamento neghittoso di qualcuno impedisce al collettivo di conseguire obiettivi superiori, in nome del suo proprio particolare, sicché è sulla natura di questo che occorre gettare lo sguardo, quantomeno in nome dei confronti interpersonali di utilità.
C’è chi nega la legittimità di siffatti confronti, ritenendo incomparabili i giudizi soggettivi di valore, e tuttavia qualche volta tale approccio rischia di risultare di comodo e tutore di interessi privilegiati e inconfessabili. Non è questione nemmeno di numero dei coinvolti. Pensiamo a un autobus che, pur stracolmo, debba aspettare un secondo in più per far salire un ritardatario. Il conduttore si fa arbitratore, e stabilisce che è meglio imporre un secondo di attesa a tutti i passeggeri, piuttosto che un quarto d’ora di attesa di un bus successivo al ritardatario di un secondo, e vediamo che i confronti interpersonali di utilità sono possibili, e vengono effettuati nel mercato e non solo e non necessariamente dallo Stato autoritario.
Ma allora, ci si potrebbe chiedere, “stirnerianamente”, perché mai gli altri passeggeri dovrebbero essere tenuti a sacrificare un secondo della propria vita, solo per consentire all’altro di risparmiare un quarto d’ora della propria? Viene da rispondere in nome della reciprocità, perché un domani potrebbe capitare a loro di trovarsi nelle medesime condizioni, e quindi conviene anche a loro che si formi un simile precedente.
Quindi i sacrifici degli interessi possono essere confrontati e bilanciati, senza che da ciò debba necessariamente derivare un pregiudizio unilaterale e irrimediabile, consistendo la reciprocità, o almeno la sua prospettiva, in un potenziale indennizzo adeguato.
Una questione fondamentale che si pone è dunque di stabilire se effettivamente l’uomo sia naturalmente, spontaneamente, sociale e cooperativo, ovvero se occorrano autorità centrali e coercitive per imporre tale cooperazione. E’ questo un interrogativo che ha attraversato tutti i classici della filosofia politica, ma probabilmente occorre anzitutto far riferimento alla psicologia, che ci dice che non tutti gli uomini (e le donne…) sono identici tra loro, sicché ci saranno persone più cooperative e altre meno, secondo il modello dei tipi di Jung, e allora molti discorsi di filosofia politica appaiono caduchi e asfittici da questo punto di vista. E anche la teoria dei giochi appare inadeguata, se presuppone che gli interattori siano tutti di identico carattere, e questo è sicuramente un limite anche di tale approccio ormai divenuto paradigmatico.
E così, quando Kropotkin ci parla del “mutuo appoggio” che caratterizzerebbe le varie specie animali, e ciò dovrebbe valere anche per gli uomini, che quindi potrebbero “naturalmente” e “spontaneamente” cooperare, come lo fanno ad esempio gli uccelli nell’ambito di uno stormo, dimentica forse di sottolineare che se gli animali cooperano all’interno della propria specie, ciò non fanno tra specie diverse: ad esempio il leone non coopera con la gazzella, ma la divora; e gli uomini, par di comprendere dall’osservazione, appaiono come appartenere a specie diverse, sicché gli uomini non sono tutti leoni o tutte gazzelle, ma tra di essi vi sono leoni e gazzelle (al di là di ogni giudizio di valore, ovviamente), come dimostra il gioco falchi/colombe. E allora bisogna capire se sia più funzionale all’universo umano un sistema nel quale i tipi-leone divorino i tipi-gazzella, ovvero se non sia preferibile il prevalere di questi ultimi. Fuor di metafora zoologica, immaginiamo una società, in cui convivano, come nell’antichità, guerrieri e filosofi, e chiediamoci se preferiamo il predominio dei primi o dei secondi. Nel primo caso (leoni) prevarrà la forza bruta, nel secondo (gazzelle) l’agilità, nel nostro caso anche del pensiero. E’ chiaro che in una società moderna, fondata desiderabilmente sulla comunicazione e l’informazione, piuttosto che sulla guerra, preferiremmo il secondo genere di predominio, ma purtroppo non sempre è così; e anzi vediamo che il pensiero e la scienza sono spesso poste al servizio della guerra e dell’oppressione, piuttosto che della pace e della cooperazione.
E ancora una volta vien da chiedersi se ciò sia frutto inevitabile della natura umana, o se sia la conseguenza di imperscrutabili percorsi da mano invisibile alla rovescia, che hanno condotto l’umanità a questo punto, a sottostare al potere, piuttosto che a seguire ideali di libertà e di pari libertà tra tutti gli esseri umani (e non umani…).
Secondo Hobbes, o almeno secondo le interpretazioni prevalenti, dalle quali in passato abbiamo cercato almeno in parte di discostarci, l’uomo sarebbe originariamente non cooperativo. Ciascun individuo sarebbe dotato di facoltà naturali, lo ius naturale, ma sarebbe indotto a esercitarle in contrasto con la lex naturalis, limite etico che imporrebbe viceversa quella cooperazione, che, in assenza di autorità centrale, sarebbe inattingibile. La natura dell’uomo, lasciata a sé stessa, sarebbe dunque conflittuale e darebbe vita all’opposto di un’armonia spontanea. Ciò è possibile. Resta tuttavia un problema irrisolto. E cioè che quell’autorità centrale, che dovrebbe essere incaricata di imporre quell’accordo che spontaneamente non si perfezionerebbe, è costituita a sua volta da uomini! E quindi è tutt’altro che chiaro come uomini, per natura non cooperativi, potrebbero imporre ad altri uomini quella cooperazione che non sarebbe nel loro DNA, come non lo sarebbe in quello degli altri, destinati ad essere assoggettati.
Occorrerebbe, per risolvere il paradosso, un’idonea teoria delle élites, che ci illustrasse di quali caratteri dovrebbero essere dotati gli uomini incaricati di imporsi e di imporre l’ordine agli altri, non facenti parte di quella élite. Ma in Hobbes non si rinviene nulla di simile. E’ il potere in sé, infatti, per lui, che basta e avanza a garantire, attraverso la costituzione del “Leviatano”, quell’ordine, che spontaneamente non si instaurerebbe. E tuttavia vi è un altro problema: che se “ spontaneamente” non si costituisce alcun ordine, come è possibile, sempre “spontaneamente” costituire un… Leviatano che imponga l’ordine? Un economista direbbe che i costi di transazione sarebbero addirittura superiori, dato che il pactum subiectionis richiede un consenso unanime esplicito, mentre un mercato spontaneo ne richiederebbe uno semplicemente implicito, in quanto fondato su una rete di accordi particolari, dai costi di transazione in sé considerati piuttosto ridotti.
Quindi per Hobbes è interesse dell’individuo che vi sia uno stato sociale, ma è pessimista sul fatto che gli uomini siano in grado di perseguire quell’interesse senza sottomettersi a qualcuno che lo stato sociale imponga, e quindi vi è convinzione in ordine alla cecità dell’uomo sul proprio effettivo interesse, sulla sua incapacità di guardare oltre il proprio naso, per dir così.
Locke è meno pessimista di Hobbes. Il suo stato di natura è assai più pacifico di quello hobbesiano. Il suo parziale ottimismo anticipa quello che sarà proprio degli anarchici. Secondo Locke, a differenza che in Hobbes, i diritti di libertà, di sicurezza e di proprietà sono “quasi” stabili, addirittura le persone si associano per difendersi, e tuttavia istituzioni si rendono indispensabili per conferire definitiva stabilità a quei diritti, fermo restando il diritto supremo di resistere al governo inetto e tiranno (ma questo in fondo nemmeno Hobbes lo negava).
Hume è invece il progenitore dei sostenitori degli ordini spontanei. Secondo lo scozzese, gli uomini hanno piena contezza del fatto che la cooperazione convenga e sia di loro interesse: lo apprendono con l’esperienza. Imparano che trasgredire le convenzioni che si affermano tra noi, anche se nessuno ce le ha imposte, se non la consuetudine ripetuta, finisce con il procurarci inconvenienti, sicché gli uomini imparano che non vale la pena danneggiare gli altri, perché se ne viene immancabilmente danneggiati. Reciprocità, dunque, alla base della sua stessa convinzione, che in fondo il governo non è poi nemmeno tanto necessario, e che forse se ne potrebbe fare a meno! Siamo dunque all’opposto di Hobbes e, si direbbe, al di là di ogni preferenza personale, con maggiore coerenza logica: se aggredisci vieni punito, quindi non ti conviene aggredire. Ma se così è, gli uomini apprendono da sé, attraverso tentativi ed errori, dove stia la verità, e quindi “forse” non è nemmeno necessaria un’autorità che ce la impartisca.
Non solo dunque è interesse individuale che vi sia uno stato sociale, ma è interesse rispettarlo, non perché sia per qualche strana ragione “obbligatorio”, ma perché semplicemente conviene ed è a sua volta nostro interesse. Che poi tale ordine sociale produca benefici e non danni resta impregiudicato, salvo che alcune convenzioni, che così si stabilizzano, come la proprietà e la promessa, vanno considerate utili, quindi è il diritto lo “stato sociale” che si rivela vantaggioso per l’interesse individuale, che coincide con esso, o quantomeno lo assicura e garantisce. Il diritto, in ultima analisi, garantisce la sopravvivenza della società e, al contempo, tutela gli interessi individuali. Ma, si badi, per Hume diritto non è sinonimo di Stato, e tale accenno apre orizzonti inimmaginabili, a sua volta sviluppato dai più acuti tra i pensatori anarchici, almeno quelli che mai si sono sognati di negare il diritto, nel mentre che negavano lo Stato con la “s” maiuscola.
Che dire di Rousseau? Egli muove dal presupposto che allo stato di natura l’uomo sia libero e incontaminato, ma la nascita della proprietà privata lo corrompe. Da tale corruzione nasce la necessità dello Stato, della rappresentanza, del vincolarsi alla “volontà generale”, ancora una volta distinta da quella di tutti i membri che compongono la collettività. E’ nota la sua invocazione retrospettiva: guai a colui il quale non ha demolito la prima recinzione! Ma gli si possono dare tutti i torti? In effetti, il proprietario si autolimita, ma limita anche gli altri. Nel momento in cui egli si fa proprietario, “costringe” (lo intende anche Kant) anche me a fare altrettanto! Ma se io non avessi voluto? Se io avessi piuttosto preferito godermi i commons esistenti prima che si affermassero, con la violenza, le enclosures? Prima potevo pascolare, in tutti i sensi, ovunque; ora mi costringi a mia volta in un recinto (nella migliore delle ipotesi, ossia nell’ipotesi in cui anch’io possa farmi proprietario come te), quando la mia mente non voleva conoscere limiti.
Bizzarramente Montesquieu parte dal presupposto opposto e contrario: che nello stato di natura vi sia pace, ed è invece quando si entra in società che inizia lo stato di guerra, che egli individua come guerra tra nazioni; il che pare lungimirante, perché individua nella separazione tra i popoli la matrice dell’oppressione, che non può scaturire spontaneamente all’interno di ciascuna società, ma solo come frutto del predominio dell’una sull’altra.
Rispetto ai classici che l’hanno preceduto, Marx presenta un’”offerta” più articolata. Per lui, infatti, la dialettica cooperativo/defettivo va ripartita per classi. Le classi cooperano al proprio interno, ma confliggono tra di loro. In realtà, la situazione è ancora più complessa. Anche all’interno della singola classe v’è competizione (tra borghesi, entrando in contraddizione tra interesse individuale e interesse di classe; tra proletari, visto che vi sono quelli che praticano il dumping), ma l’obiettivo da perseguire è di compattare, di sindacalizzare la classe, in modo da contrapporla unitaria all’altra, in vista della conquista del potere (ancora Hobbes). L’obiettivo finale è però che il potere venga meno, deperisca, si estingua, e v’è certamente qualcosa di religioso, non tanto nell’obiettivo finale (che è comune al più laico degli anarchici), quanto nel processo dialettico della sua formazione, per il quale si corre da una parte per giungere a quella opposta, come Cristoforo Colombo, ma anche come in un purgatorio. L’antropologia è però ottimistica, anche se sofferta, l’uomo può migliorarsi, sacrificandosi, e pervenire a conclusione del percorso alla società suprema dell’abbondanza, dove l’interesse individuale e quello collettivo perfettamente combaceranno, e dove anzi l’uno sarà co-condizione dell’altro, o anzi, per dir meglio, il pieno sviluppo di ognuno sarà condizione del pieno sviluppo di tutti.
Come si vede, in Marx l’idea che l’interesse individuale stia nel perfetto stato sociale giunge al culmine. Ma, se ben vediamo, questa idea è insita in qualunque teoria del mercato, quantomeno nella sua più compiuta idealizzazione. Nel mercato idealizzato, ognuno persegue il proprio interesse e, come diceva Adam Smith, facendo ciò promuove l’interesse generale e di tutti, guidato dalla famosa mano invisibile. Gli anarchici, pur quelli che rifiutano la nozione di mercato, condividono un tale ottimismo. Essi preferiscono però far riferimento a un’altra nozione, quella di “comunità”.
Ma in che cosa una comunità differisce da un mercato? C’è chi sostiene che mentre il mercato sarebbe la sede delle interazioni e degli scambi, la comunità sarebbe un che di complesso, e che peraltro si propone all’esterno come un che di unitario. Tuttavia la nostra impressione è che quella complessità interna sia retta proprio dalle stesse regole che gli economisti individuano come regole della rete del mercato: anche scambiarsi sorrisi o smorfie è “mercato”, in questo senso, e comunque anche all’esterno quella comunità dovrà pur scambiare, con altre comunità o tribù, in un modo o nell’altro, e tutte saranno connesse in rete. Il mercato sarebbe “economico”, mentre la comunità sarebbe “politica”. Ma ha senso questa distinzione? Forse che anche i filosofi politici non utilizzano, come gli economisti, la teoria dei giochi, per studiare le interazioni intersoggettive? Forse che gli economisti, dopo Robbins e Becker, non fanno che studiare l’allocazione delle risorse scarse, prima tra tutte l’energia umana, tra le diverse condotte intersoggettive possibili?
E allora concludiamo ricongiungendoci a dove siamo partiti, affermando che “mercato” è solo una tecnica per studiare la comunità umana, luogo dove le persone verificano quotidianamente quanto sia possibile perseguire i propri interessi, ovviamente non necessariamente egoistici in senso deteriore, verificando quanto essi possano essere massimizzati da una vita comune soddisfacente per tutti, attraverso la realizzazione di “beni pubblici”, anche in senso lato e metaforico, dai quali attingere il più liberamente possibile. E le prospettive di automazione hanno molto da dire in questa direzione, neutralizzando il dilemma del prigioniero e il free-riding che ne consegue, e rendendo forse non più tanto remota la prospettiva comunista-anarchica della presa nel mucchio. E anche questo è “mercato”; ma questa è un’altra storia.
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