di Giulio Giorello
«Le banche si sono condannate a morte da sole», scriveva nel
1817 Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti (1800-1807), a Thomas
Cooper, uno dei più importanti sostenitori americani della fisiocrazia (la
dottrina che vede nell’agricoltura il fondamento delle attività economiche). In
quell’occasione si dichiarava convinto che l’ammanco di trecento milioni di
dollari (di allora) da parte delle banche americane e il loro rifiuto di pagare
i creditori potesse segnare la loro scomparsa dalla scena! Ma «grazie alla
stupidità dei nostri cittadini e all’acquiescenza dei nostri legislatori», i
banchieri avevano letteralmente saccheggiato la giovane nazione, spendendo i
soldi del popolo in «case sontuose, eleganti carrozze e cene di lusso». Il
terzo presidente non aveva mai nascosto la sua avversione per un sistema
bancario tanto svincolato da qualsiasi forma di pubblico controllo da «minacciare
le stesse istituzioni repubblicane». E già un anno prima della crisi del 1817 a
un altro suo corrispondente aveva denunciato «la bolla finanziaria» (suo
termine) che affliggeva come una pericolosa malattia i cittadini della nuova
America, i quali, «come l’idropico chiede acqua in continuazione», invocavano
«banche, banche, banche», in una sorta di «stato febbrile» non troppo diverso
da quello che aveva tormentato i Paesi del vecchio mondo. A questa patologia
Jefferson si era da sempre opposto non con semplici denunce morali («come
avrebbe fatto Don Chisciotte contro i mulini a vento»), ma con un articolato
appello ai farmers, cioè agli
agricoltori indipendenti che a suo parere costituivano il nerbo della nazione,
non solo dal punto di vista economico ma anche, e soprattutto, da quello
politico. La vocazione democratica e repubblicana degli Stati Uniti veniva così
indissolubilmente legata all’«industriosità» di tale gruppo sociale, che si
sarebbe contraddistinto per la sua capacità di intrapresa economica e di
autodeterminazione politica.
Proviamo adesso a sostituire ai farmers jeffersoniani coloro che oggi producono reale ricchezza e conoscenza: imprenditori, lavoratori industriali e agricoli, operatori della cultura, ricercatori tecnico-scientifici e persino artisti capaci di indicare originali forme di espressione. E immaginiamoli alle prese con le bolle e le banche odierne: non occorre eccessivo sforzo, perché è questo lo spettacolo che si para di fronte ai nostri occhi pressoché ogni giorno.
Il mosaico di concezioni filosofiche, politiche ed
economiche in cui si inquadra la battaglia di Jefferson viene ora puntualmente
ricostruito da Manuela Albertone, una delle più prestigiose studiose
dell’Università di Torino, che da molti anni si dedica a quella complessa
«storia atlantica» che guarda all’intreccio del Nuovo e del Vecchio Mondo,
quasi una sorta di ping-pong in cui ci si scambiano merci, germi, animali,
essere umani e soprattutto idee, progetti e pratiche,
talvolta anche ignobili (pensiamo, ovviamente, alla tratta dei neri e alle
stesse esitazioni di Jefferson e di molti suoi sostenitori di fronte alle
proposte radicali di abolizione del sistema schiavistico visto come
incompatibile con la libera repubblica come loro stessi l’immaginavano). Prima
di raccontare National Identity and the
Agrarian Republic, l’ultima fatica di Albertone, mi pare rilevante che questa
sia stato pubblicata direttamente in inglese presso l’autorevole collana di
storia economica e sociale dell’età moderna dell’editore anglo-americano
Ashgate. A dimostrazione che il «commercio delle idee» - per usare il
sottotitolo del volume - tra vecchia Europa e giovane America continua a tutt’oggi
…
Tema centrale del libro, infatti, è da una parte il
contributo dell’Illuminismo europeo al formarsi della coscienza peculiarmente
americana nel quadro di una originale trasposizione dei temi economici cari ai
fisiocratici di Francia, poi ripresi e ripensati in chiave politica dai
«risoluti ribelli» guidati da Jefferson fin dai tempi della Dichiarazione di
indipendenza (1776); dall’altra, il rientro di questi strumenti per pensare il
nesso economia/politica nell’Europa rivoluzionaria degli anni Novanta del
Settecento, a cominciare dai coraggiosi giacobini di Francia e persino
d’Inghilterra. Albertone si concentra sulle riflessioni intorno ai paradigmi
fisiocratici nelle tredici colonie ancora sotto il dominio britannico, prima
ancora della Rivoluzione: riflessioni che coinvolgevano non solo il giovane Jefferson
ma personaggi del calibro dello scienziato cosmopolita Benjamin Franklin e del
quacchero inglese Thomas Paine, figure che, in tempi diversi e situazioni
differenti, avevano imparato dalla Francia dei Lumi e dovevano insegnare a loro
volta agli europei i modi concreti dell’emancipazione. I temi della
fisiocrazia, ampiamente recepiti e discussi dagli americani, in un «commercio»
fecondo di libri, lettere e controversie con i loro colleghi francesi e alleati
(è bene ricordarlo) nella guerra contro gli inglesi, avrebbero poi costituito una
vera e propria impalcatura intellettuale e culturale per l’esperimento
democratico realizzato in armi. «Per Jefferson la pietra di paragone di una
repubblica», scrive Albertone, «era una democrazia decentrata, garantita dai
poteri degli Stati e dalla partecipazione politica concepita come forma di
educazione repubblicana, cui tutti potevano accedere per mezzo di un sistema
scolastico nazionale diffuso su tutto il territorio». Per il terzo presidente,
epico protagonista non solo della ribellione americana ma anche di National Identity and the Agrarian Republic,
tale repubblica poteva trovare stabili e solide fondamenta solo nell’autonomia economico-politica
di un ceto popolare che faceva del possesso e del lavoro della terra il nucleo
di un repubblicanesimo al tempo stesso democratico e individualista. Al
progetto doveva dare un contributo anche il più estremista Paine, coniugando
tale radice agraria con un maggior sensibilità per le attività manifatturiere e
industriali. «Il radicalismo» di questo singolare quacchero capace di rinnegare
il pacifismo religioso in nome dell’emancipazione, spiega Albertone, «combinava
una forma di egualitarismo democratico, ma non livellatore, con gli sviluppi
economici della società di mercato, portando a piena maturazione l’economia
politica dei jeffersoniani».
Dunque, per quei pensatori che erano anche uomini d’azione
(ma anche per noi, a prescindere dagli stessi esiti delle rivoluzioni americana
e francese), indipendenza economica voleva dire libertà nell’accezione più
completa del termine. E da qui sono comunque discesi spirito d’intrapresa (per
dirla con le parole care a Luigi Einaudi), tolleranza religiosa e civile
(intesa come nucleo di un progressivo abbattimento di ogni genere di
discriminazione), assenza di qualsiasi potere che si presenti come
incontrollabile (per usare un’espressione che Karl Popper ha coniato nella sua
polemica contro la televisione ma che noi oggi vorremmo, proprio come i jeffersoniani,
applicare al potere finanziario in tutte le sue forme).
Estremi del volume:
Manuela Albertone, National
Identity and the Agrarian Republic. The Transatlantic Commerce of Ideas between
America and France (1750-18390), Ashgate, Farnham-Burlington 2014, pp. I-X,
1-324, £ 75.00.
Manuela Albertone è professore ordinario di Storia moderna
presso il Dipartimento di Studi storici dell’Università di Torino.
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