di Fabio Massimo Nicosia
Intervistiamo la dottoressa Silvia Cecchi, Sostituto Procuratore della Repubblica a Pesaro, che da anni sviluppa, attraverso i suoi scritti, una critica dell'istituzione carceraria e dei suoi fondamenti e presupposti filosofici. La magistrata è anche un'apprezzata musicista e librettista d'opera.
D. Dottoressa Cecchi, nel suo libro “Giustizia relativa e pena
assoluta”, lei sostiene fondamentalmente due tesi, a proposito della
indesiderabilità della sanzione carceraria. La prima è che essa coinvolge in
modo totale (assoluto) la persona del reo, mentre l’atto da lui compiuto ne è
solo una manifestazione parziale (relativa). La seconda è che il carcere
sarebbe incostituzionale per violazione dell’art. 27, dato il suo carattere
solo afflittivo e non rieducativo. Abbiamo capito bene? Può fare qualche
esempio?
R. Sì,
credo che in assenza di una seria base epistemica in grado di rendere conto del
rapporto tra una determinata personalità e determinati specifici suoi atti, di
come davvero sta un atto alla persona, la totalitarietà della risposta
sanzionatoria carceraria sia fortemente arbitraria, priva di alcun fondamento
razionale, scientifico e anche criminologico. Le condotte costituenti reato
coprono oltretutto una gamma estremamente diversificata di tipologie e per
talune di esse la punizione della persona come tale è apertamente
irragionevole, tanto che sorprende come possa essere stata mantenuta fino ad
oggi, se non per conformismo e conservatorismo irriflesso del pensiero. Ma
sotto questo profilo (qualitativo) e
indipendentemente da valutazioni quantitative e da considerazioni sulle caratteristiche della specifica condotta criminosa, il carcere è sempre tendenzialmente una sanzione eccedente una giusta misura di sanzione.
Così stando le cose, non deve sorprendere
che anche le opinioni più attente ai temi dei diritti (così anche un celebre
intervento del Comitato Nazionale di Bioetica) e che raccomandano di
circoscrivere la pena carceraria alla sola privazione della libertà personale,
tenendola il più possibile distinta dal sacrificio delle altre libertà
fondamentali della persona (salute, lavoro, relazionalità, affettività, studio
e ogni altra forma di promozione culturale), sono destinate a restare frustrate
dall’evidenza contraria: perché il carcere quale oggi è inteso e realizzato è
strutturalmente incapace di salvaguardare tutte le altre libertà costituzionali
della persona.
Vero che certe condotte (le più gravi,
recidivanti ecc) sono più espressive di altre della personalità dell’autore:
condotte violente, refrattarie a qualunque richiamo al rispetto della legge e
dei diritti altrui, abusi o omicidi seriali, appartenenza organica ad
associazioni criminose eccetera. Ma da un lato nessuno può dimostrare che, per
gravi che siano, anche tali condotte esauriscano per certo la personalità del
loro autore, dall’altro e percentualmente si tratta pur sempre di una fascia di
condotte e di soggetti che occupano tuttora una quota esigua della popolazione
carceraria.
La stessa raccomandazione costituzionale
(finalità tendenzialmente rieducativa e perseguita come principio
indefettibile, indipendentemente da ogni considerazione prognostica circa il
raggiungimento o fallimento del progetto) postula la sopravvivenza in ogni caso
di una ‘parte buona’ della personalità, più o meno estesa: quella su cui
occorre lavorare e fare leva. In ciò la scommessa umanistica a cui nessun
Legislatore penale può rinunciare, e che include il diritto alla speranza,
all’apprendimento dell’auto ed etero-responsabilità, alla dignità individuale e
sociale. Ogni diversa concezione della pena carceraria costituirebbe negazione
dei presupposti della dignità dell’essere umano, chiunque esso sia.
Direi che il rocchetto intorno al quale ho avvolto
il filo di ogni successiva considerazione sul tema, è costituito proprio da
questo nucleo concettuale, scaturito del resto da riflessioni e sentimenti
dettati dalla mia ormai lunga esperienza professionale.
D. Se pure si dovesse ritenere che per ragioni di difesa
sociale fosse necessario sottoporre a significative limitazioni della libertà
personale le persone effettivamente pericolose, che ne penserebbe di sostituire gli
attuali penitenziari con forme di recupero sul modello delle comunità e delle
case-famiglia?
R. Non vi è
dubbio che un luogo di restrizione e separazione dell’autore di fatti gravi
dall’ambiente sociale in cui ha commesso il delitto o dall’ambiente criminale
in cui è inserito, che possieda viceversa caratteristiche compatibili con il rispetto effettivo delle altre
libertà individuali (diritto alle relazioni, alla tutela della salute, del
lavoro, dello studio ecc..) si porrebbe già in una logica ben diversa da quella
carceraria su cui si appuntano le censure dei miei scritti.
D. Molti autori, pensiamo a Luigi Ferrajoli, parlano di un
“diritto penale minimo”, al fine di deflazionare le innumerevoli ipotesi di
reato che contribuiscono ad affollare inutilmente le carceri. Lei come
considera questa impostazione, e quali figure di reato manterrebbe e quali, ad
esempio, eliminerebbe?
R. Sono contraria al diritto penale minimo e più favorevole
semmai alla sanzione carceraria minima. Non occorre rinunciare alle
straordinarie opportunità che offre il diritto penale-processuale per rinunciare ai mali della pena carceraria
quale oggi è. Nel mio secondo scritto cerco di mostrare i connotati per così
dire ‘positivi’ del diritto penale che differenziano questa branca del diritto
da ogni altra: prima di tutto l’incisività dei mezzi istruttori, dei poteri di
investigare, conoscere, sapere, scoprire. Inoltre la officialità e pubblicità
del rito processuale, la ritualità stessa ecc. Inoltre la capacità di censire e
valorizzare i beni individuali e comuni che ogni società assume quali valori
primari e prioritari: funzione valutativa-assiologica di cui ogni altra branca
del diritto è incapace. Non a caso, a dispetto di tali invocazioni (che
scambiano diritto penale con sanzione penale tradizionale), il diritto penale è
in evidente espansione, di pari passo con la individuazione di beni collettivi
di enorme e primaria importanza sociale, un tempo sconosciuti.
Sono invece d’accordo, se si tratta di recidere dalla fitta siepe
dei reati quelle ipotesi, tuttora esistenti,
francamente anacronistiche o assai meglio sanzionabili dal diritto
civile o da un diritto amministrativo sanzionatorio.
D. Lei pone al centro della sua riflessione la questione dei
diritti della vittima, che sarebbero trascurati dalla sanzione carceraria. Ma
non pensa che vi siano troppi reati senza vittima (victimless crymes), la prima
categoria dei quali è rappresentata da quelli previsti dalla legislazione sulla
droga? E’ noto infatti che le carceri sono strapiene di condannati per reati
connessi alle droghe. Che cosa pensa in proposito di una politica profondamente
antiproibizionista sulle droghe?
R. Pensando la responsabilità penale in termini
‘relazionali’ (ne parlo diffusamente nel primo e nel secondo scritto)
necessariamente la vittima assume un ruolo co-protagonistico accanto a quello
del reo. Né credo che possa pensarsi diversamente la radice della
responsabilità, la sua sede concettuale appropriata, se non collocandola nella
relazione interpersonale, a meno di non restare fatalmente assoggettati a una
concezione ‘religiosa’ della responsabilità/colpa e della sanzione
conseguente.
Ciò non significa tuttavia dare alla vittima poteri che non
le competono e che competono agli organi di giustizia istituzionali.
Faccio un esempio che solo in apparenza può sembrare
prendere il tema di lontano: i nostri commenti e giudizi comuni non spiegano
come mai su un piano della nostra esistenza quotidiana ci pensiamo in
conflitto, in antitesi gli uni con gli altri (reciprocamente, come singoli o
come gruppi), e in questa dimensione orientiamo le nostre condotte, mentre
nella riflessione solitaria che avviene (quando avviene) sul piano della
filosofia, della poesia, dell’arte o della religione, scopriamo di abitare su un piano della stessa nostra esistenza in
cui ci pensiamo tutti egualmente soli, idealisti incompresi e delusi. Com’è
possibile questa contraddittoria condizione?
Se si tratta, come io credo, di due livelli differenti e
simultanei della nostra vita, allora anche (soprattutto) la giustizia deve
situarsi, fra i due piani, su quello più elevato, trascendere le ragioni della
conflittualità spicciola o passionale, e pensare sempre l’uomo come entità che
merita ascolto e dignità, al di là degli atti compiuti. Qualcosa di più di una
semplice posizione di equidistanza, sì una posizione di intelligenza che sappia
distinguere la severa censura degli atti dalla gentilezza (aperta e non chiusa,
di vicinanza e non di distanza) che sempre si deve alla persona.
Basterebbe questa sola considerazione a spiegare perché la
giustizia penale non possa usare gli strumenti punitivi e la stessa logica del
conflitto ‘di primo livello’. Comprendiamo inoltre
assai meglio in che cosa consista, nella sua espressione migliore, l’essenza
della pratica di ‘mediazione’ in materia penale.
Comprendiamo infine perché al maggior protagonismo accordato
alla vittima non debba corrispondere un suo potere di ‘farsi giustizia da sé’ o
di pretendere dalla giustizia pubblica l’accoglienza incondizionata delle
proprie istanze.
Superata la motivata diffidenza per un’etica del diritto,
potremo tornare a cogliere il nucleo etico della giustizia nella prospettiva di
una lettura relazionale della responsabilità, in cui il baricentro etico si
sposta dall’ impervia collocazione infrapsichica individuale, alla necessaria
etica dei comportamenti e delle relazioni, del rispetto e della comprensione
dell’altro.
Sotto l’altro aspetto segnalato, i reati senza vittima sono
eterogenei: reati a sfondo economico in cui la vittima è tutelata da
assicurazione e quindi non subisce alcun vulnus (se non ‘modale’, ma non è il
caso dei cc.dd. victimless crymes); reati come la droga in cui le
vittime esistono ma non sono la controparte immediata del reato… La domanda
sull’abolizionismo risponde a logica del tutto diversa da quella in cui si
muovono le mie considerazioni.
Tuttavia, poiché mi viene chiesto, e spostandomi
sul piano della sociologia ed economia del crimine, ritengo che scelte
antiproibizioniste determinerebbero una caduta significativa del substrato di
profitto finanziario che costituisce uno dei motori primi del mercato delle
droghe, e rispetto al quale le condotte di acquisto, consumo e piccolo spaccio
non sono altro che epifenomeni o, visti dalla parte di chi ne trae profitto,
espressione della più cinica strumentalizzazione delle fragilità diffuse specie
nelle fasce giovanili, per finalità appunto di profitto…
D.Lei si pronuncia fondamentalmente contro il carcere, ma
non contro il diritto penale in quanto tale, in quanto strumento di tutela dei
beni giuridici. Ma non pensa che il diritto penale, con la sua pretesa di
sindacare il foro interno delle persone (dolo e colpa nelle loro varie
articolazioni), sia in quanto tale una branca del diritto poco laica,
quando il vero problema è appunto quello di risarcire “civilmente” i
danneggiati?
R. Per quanto accennato poc’anzi, ritengo che il diritto
penale debba essere sempre un diritto laico, nella misura in cui deve essere
incentrato sulla dimensione relazionale del rapporti interpersonali, ritirandosi da ogni tentazione di scendere
(con procedimento deduttivo) arbitrariamente nel fondo etico o psichico
imperscrutabile dell’individuo. Non
occorre rinunciare a una dimensione morale del diritto per poterlo definire laico,
ma basta spostarne il baricentro etico sul piano delle interazioni e delle
relazioni.
Il concetto di ‘risarcimento’, per quanto allargato e
inclusivo, è del tutto insoddisfacente rispetto alla molteplicità di piani
offesi dal reato. Lo dimostra a contrario la pratica della mediazione, vera
controprova della profondità, pluralità dei livelli attinti dal reato e che di
cui la vittima ha diritto di trovare ‘riparazione’ (concetto assai più lato di
quello di risarcimento’ specie in senso civilistico…). Il reato reclama
risposte sia sul versante della vittima sia su quella del reo, per quanto si
tratti di risposte diversificate.
D. Che cosa pensa della politica radicale sulle carceri e a
favore dell’amnistia e dell’indulto, come rimedio straordinario
deflazionistico, anche a fronte della nota sentenza Cedu “Torreggiani”?
R. Non credo che
amnistia e indulto possano rimediare se non alla cresta emergente del problema
carcerario, ma provocando gravi vuoti di risposta penale e dunque di ingiustizia
sul piano diritto penale, mentre ciò su cui stiamo ragionando è un nuovo
pensiero (o ‘filosofia’ come anche si dice) del reato e della sanzione penale.
D. Che cosa pensa dei provvedimenti in corso di elaborazione
da parte del governo in materia di detenzione domiciliare, archiviazione per
tenuità del danno, e in genere delle sanzioni alternative al carcere?
R. Penso che questi nuovi istituti rappresentino tentativi
iniziali di risposta sanzionatorie alternative/ sostitutive al carcere e dunque
primi passi mossi sulla strada di una revisione teorico-pratica del c.d.
diritto sanzionatorio.
D. Ci consenta una domanda di carattere personale: Lei di professione è
Sostituto Procuratore della Repubblica. Come vive nella sua attività
professionale le sue idee riformatrici, o vive, come capita sovente a tutti
noi, una sorta di scissione della personalità tra convincimenti interiori ed
esigenze professionali?
R. L’esperienza professionale mi
parla soprattutto di una ineffettività della sanzione penale, e, nei casi in
cui applicata, di una sua inefficacia rispetto ai fini perseguiti. Mi sono
dunque trovata a domandarmi se ciò non fosse la conseguenza di una improprietà
della sanzione, piuttosto che l’effetto di un cattivo funzionamento della
giustizia e di una carenza di lavoro o di capacità dei magistrati.
La finalità principale delle
riflessioni che svolgo sul punto si muove proprio nella direzione della
individuazione di sanzioni più efficaci, più effettive e più impegnative per il
reo, e al tempo stesso più ‘utili’ alla vittima. Tutto ciò è sintonico e non in
contraddizione con la mia professione e le mie funzioni.
Io credo che sia
assolutamente necessario alla coscienza civile dei cittadini e al loro senso di
appartenenza ad una società in cui si riconoscono, che siano acclarate (e solo
i mezzi istruttori penali lo consentono) le verità dei fatti illeciti, e che
siano pronunciate le relative responsabilità. Oggi il processo penale è un
imbuto dal collo stretto: riesce ad acquisire una messe di preziose conoscenze
e verità (anche al di là dei tentativi frequenti di depistaggio, almeno nei
casi giudiziari nevralgici), ma non riesce a portarle alle conseguenze ultime,
a tradurle in pronunce di responsabilità e in applicazione di sanzioni
appropriate. Ciò dipende anche, come ho detto e come ritengo, dall’inadeguatezza
dell’apparato sanzionatorio.
Ritengo al contrario che il
diritto penale sostanziale e processuale penale siano indispensabili al
consolidamento e alla conservazione di una coscienza civile collettiva.
D.Per concludere con una domanda
frivola. Leggiamo che lei è musicista e librettista d’opera di musica
contemporanea. Quali sono i suoi gusti in tale ambito? Conosce Elliott Carter?
R.
Conosco Elliott Carter solo dalla posizione di
ascoltatrice. Non ho mai visto la sua scrittura musicale, non conosco l’intera
sua opera ma ho solo ascoltato talune sue composizioni. Nei limiti di questa
conoscenza posso solo dire che Carter è un compositore eccellente, capace di
una tessitura orchestrale di ottima fattura e pregio, di grande intelligenza
nel trattamento consequenziale dei nuclei tematici e dei loro effetti melodici,
armonici e timbrici. Grazie per la domanda… divagatoria.
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