di Riccardo Battaglia
L’Italia è un Paese bizzarro.
Sapete che mestiere fa il personaggio che più di ogni altro oggi si batte per l’abolizione
del carcere? La pianista? La librettista d’opera di musica contemporanea?
Esatto! Ma forse vi sorprenderà di più che la sua occupazione principale è
quella di Sostituto Procuratore della Repubblica, a Pesaro per l’esattezza.
In un suo testo pubblicato dalla
gloriosa Liberilibri nel 2011 (Giustizia relativa e pena assoluta), Silvia
Cecchi argomenta da par suo su tale delicata questione. Non aspettatevi
affermazioni mirabolanti e guerrigliere, si tratta di una “moderata”! La Cecchi
semplicemente sostiene che il carcere, nella sua essenza punitiva, retributiva
e afflittiva, semplicemente contrasta con l’art. 27 della Costituzione, secondo
il quale la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, senza con
questo ristorare in alcun modo le vittime.
In realtà l’autrice svolge anche
un discorso più sottile, come si evince dal titolo del lavoro. La pena è “assoluta”,
nel senso che toglie in toto tempo e spazio al “reo”, mentre raramente la
condotta “delittuosa” esprime totalmente la personalità “malvagia” di questo,
di cui il reato è solo una manifestazione parziale.
Si noti –è questo a nostro avviso
è un limite- la Cecchi non intende contestare il diritto penale in quanto tale;
secondo l’autrice residua comunque spazio per pene alternative, restitutorie,
interdittive, per processi di mediazione (questo l’aspetto più interessante,
che l’autrice ha sviluppato in altri scritti), ma solo il carcere in quanto
istituzione totale, che non ha senso né per il reo (quando è tale: non
dimentichiamoci mai le detenzioni cautelari e degli innocenti), né per la
vittima, che non vi ricava nulla, se non soddisfazione a un sentimento di
vendetta, in sé comprensibile, invero.
La vittima, si badi, quando c’è! Perché
moltissimi sono ancora i reati senza vittime, i victimless crymes.
Detto questo sommariamente sul
libro di Silvia Cecchi, resta spazio per qualche appunto sull’attuale lotta
radicale sulle carceri, e non possiamo non esprimere un senso di
insoddisfazione. Proprio il libro della Cecchi, così argomentato, così ricco di
spunti, ci fa pensare che i radicali rischiano di perdere un’occasione storica.
Secondo i radicali, in nome dello
“Stato di diritto”, bisogna “riportare il carcere nelle legalità”. Ma quando
mai ci è stato? Proprio la Cecchi ci dice che, in nome di quello stesso Stato
di diritto, il carcere andrebbe semplicemente abolito, ammettendosi semmai (ai
sensi dell’art. 13 della Costituzione) qualche limitazione di libertà personale
per i casi di maggiore pericolosità sociale, ma ciò non significa “carcere”
come lo conosciamo (case-famiglia, etc.).
E allora auspichiamo che, come
fecero con i manicomi, i radicali vadano appunto alla radice delle cose e
arricchiscano la propria azione con un maggiore approfondimento sull’istituto
carcerario in quanto tale, sulla tematica del diritto penale minimo, e così
via, dato che il rischio è quello di chiedere troppo e troppo poco nello stesso
tempo.
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