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martedì 3 febbraio 2015

Giustizia relativa, pena assoluta e il ruolo dei radicali sulle carceri


di Riccardo Battaglia

L’Italia è un Paese bizzarro. Sapete che mestiere fa il personaggio che più di ogni altro oggi si batte per l’abolizione del carcere? La pianista? La librettista d’opera di musica contemporanea? Esatto! Ma forse vi sorprenderà di più che la sua occupazione principale è quella di Sostituto Procuratore della Repubblica, a Pesaro per l’esattezza.

In un suo testo pubblicato dalla gloriosa Liberilibri nel 2011 (Giustizia relativa e pena assoluta), Silvia Cecchi argomenta da par suo su tale delicata questione. Non aspettatevi affermazioni mirabolanti e guerrigliere, si tratta di una “moderata”! La Cecchi semplicemente sostiene che il carcere, nella sua essenza punitiva, retributiva e afflittiva, semplicemente contrasta con l’art. 27 della Costituzione, secondo il quale la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, senza con questo ristorare in alcun modo le vittime.


In realtà l’autrice svolge anche un discorso più sottile, come si evince dal titolo del lavoro. La pena è “assoluta”, nel senso che toglie in toto tempo e spazio al “reo”, mentre raramente la condotta “delittuosa” esprime totalmente la personalità “malvagia” di questo, di cui il reato è solo una manifestazione parziale.




Si noti –è questo a nostro avviso è un limite- la Cecchi non intende contestare il diritto penale in quanto tale; secondo l’autrice residua comunque spazio per pene alternative, restitutorie, interdittive, per processi di mediazione (questo l’aspetto più interessante, che l’autrice ha sviluppato in altri scritti), ma solo il carcere in quanto istituzione totale, che non ha senso né per il reo (quando è tale: non dimentichiamoci mai le detenzioni cautelari e degli innocenti), né per la vittima, che non vi ricava nulla, se non soddisfazione a un sentimento di vendetta, in sé comprensibile, invero.

La vittima, si badi, quando c’è! Perché moltissimi sono ancora i reati senza vittime, i victimless crymes.

Detto questo sommariamente sul libro di Silvia Cecchi, resta spazio per qualche appunto sull’attuale lotta radicale sulle carceri, e non possiamo non esprimere un senso di insoddisfazione. Proprio il libro della Cecchi, così argomentato, così ricco di spunti, ci fa pensare che i radicali rischiano di perdere un’occasione storica.

Secondo i radicali, in nome dello “Stato di diritto”, bisogna “riportare il carcere nelle legalità”. Ma quando mai ci è stato? Proprio la Cecchi ci dice che, in nome di quello stesso Stato di diritto, il carcere andrebbe semplicemente abolito, ammettendosi semmai (ai sensi dell’art. 13 della Costituzione) qualche limitazione di libertà personale per i casi di maggiore pericolosità sociale, ma ciò non significa “carcere” come lo conosciamo (case-famiglia, etc.).

E allora auspichiamo che, come fecero con i manicomi, i radicali vadano appunto alla radice delle cose e arricchiscano la propria azione con un maggiore approfondimento sull’istituto carcerario in quanto tale, sulla tematica del diritto penale minimo, e così via, dato che il rischio è quello di chiedere troppo e troppo poco nello stesso tempo.

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