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giovedì 19 febbraio 2015

Diritto umano alla conoscenza, rule of law e deperimento del potere


di Fabio Massimo Nicosia

Capita sovente che Marco Pannella sia attraversato da intuizioni fulminanti, che meritano poi di essere sviscerate in tutte le loro potenzialità e implicazioni. L’ultima di queste è quella della proposta di previsione a livello internazionale di un “diritto umano alla conoscenza”, come caposaldo di una rinnovata teorica dello stato di diritto o rule of law.

Perché questa proposta è importante, a nostro avviso? Perché il diritto alla conoscenza sugli atti del pubblico potere si lega strettamente alla previsione del loro sindacato di legittimità dal punto di vista del diritto, essendo ovvio che se questi non sono noti, non possono essere nemmeno giudicati in quanto legittimi o illegittimi.

Si pensi che per il maggior teorico moderno dello stato di diritto, Hans Kelsen, non v’è atto dello Stato che sia immaginabile se non giuridificato, al che si contrapponeva la visione del rivale Carl Schmitt, secondo il quale la politica ha sempre la meglio sul diritto: Schmitt aveva dalla sua il realismo, ma non era certo un teorico liberale!

Il problema è dunque quello dei cosiddetti “arcana imperii”: possono essere questi sottoposti a trasparenza e, così (esito utile del principio di trasparenza e conoscenza) sottoposti a sindacato di legittimità?

Ovvio che se tutti gli atti del potere fossero giuridificati, come voleva Kelsen, il potere semplicemente andrebbe incontro a un graduale processo di deperimento: come diceva lo stesso Pannella negli anni ’70, il diritto come strumento di deperimento del potere.

Facciamo un esempio banale: il patto del Nazareno. Nessuno sa esattamente che cosa contenga o contenesse. E allora i grillini che cosa hanno pensato di fare? Hanno denunciato Renzi e Berlusconi per non si sa quale reato, al fine di “conoscere” il contenuto di quel patto. Il fatto è che gli accordi politici sono sottratti a qualunque verifica di legittimità, ma ciò non deve indurre a pensare che il rafforzamento dei checks and balances debba andare a vantaggio… dei pubblici ministeri! Si tratta quindi di introdurre meccanismi costituzionali e amministrativi di conoscenza, che non siano un rimedio peggiore del male.

La questione, come è evidente, assume maggiore rilievo a livello di politica estera e internazionale, al conseguente ruolo dei servizi segreti, basti pensare al peso storicamente accresciuto del Presidente USA, con progressivo accentramento del potere in quello Stato, in conseguenza dell’acquisto del crescente ruolo di potenza di quel Paese. Persino la guerra è sottoposta a un diritto bellico, per quanto questo non basti a evitare le guerre.



E allora il rimedio, almeno parziale e in prospettiva, non può che essere quello del federalismo kantiano della “pace perpetua”, accompagnato, si direbbe, da un federalismo verso il basso, per evitare che il solo federalismo verso l’alto finisca con l’accentrare ulteriormente quel potere che la dottrina liberale vorrebbe separare e controllare.

Per concludere, sia consentito un riferimento personale. Come avvocato, proposi anni addietro una causa collettiva contro il presidente del consiglio Romano Prodi, per aver violato le proprie promesse elettorali, che escludevano aumenti di tassazione, introducendo viceversa la nota “tassa per l’Europa”. Il giudice mi convocò per comunicarmi che avrebbe deliberatamente violato il codice di procedura civile, rifiutando di convocare la controparte, ritenendo platealmente infondata l’azione.

Ne scaturì infatti un’”importante” ordinanza, secondo la quale i cittadini, nei confronti della politica, non possiedono né diritti soggettivi, né interessi legittimi. Sicché, se ne ricava, la politica sarebbe legibus soluta, in dispregio di ogni teoria di stato di diritto e rule of law.

Quale proposta ne può derivare, sempre in una prospettiva di deperimento del potere arbitrario e di preminenza del diritto? Ad esempio quella di rendere giuridicamente obbligatori i programmi elettorali: i candidati al governo sarebbero costretti a prevedere solo proposte concretamente fattibili, sicché all’inadempimento corrisponda la citazione in giudizio e l’assunzione di responsabilità.

In fondo, un’elezione non è altro che una gara d’asta tra partiti, con un aggiudicatario miglior offerente. Ma nessuno accetterebbe che il concorrente a una gara proponesse progetti od offerte del tutto inverosimili: tant’è che esiste l’istituto dell’esclusione dalla gara delle offerte anomale…
pubblicato con altro titolo ne "Il Garantista" del 19 febbraio 2015

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