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martedì 24 febbraio 2015

Intervista al P.M. Silvia Cecchi: "il carcere è privo di fondamento razionale"

di Fabio Massimo Nicosia


Intervistiamo la dottoressa Silvia Cecchi, Sostituto Procuratore della Repubblica a Pesaro, che da anni sviluppa, attraverso i suoi scritti, una critica dell'istituzione carceraria e dei suoi fondamenti e presupposti filosofici. La magistrata è anche un'apprezzata musicista e librettista d'opera.
 
D.  Dottoressa Cecchi, nel suo libro “Giustizia relativa e pena assoluta”, lei sostiene fondamentalmente due tesi, a proposito della indesiderabilità della sanzione carceraria. La prima è che essa coinvolge in modo totale (assoluto) la persona del reo, mentre l’atto da lui compiuto ne è solo una manifestazione parziale (relativa). La seconda è che il carcere sarebbe incostituzionale per violazione dell’art. 27, dato il suo carattere solo afflittivo e non rieducativo. Abbiamo capito bene? Può fare qualche esempio?

R.           Sì, credo che in assenza di una seria base epistemica in grado di rendere conto del rapporto tra una determinata personalità e determinati specifici suoi atti, di come davvero sta un atto alla persona, la totalitarietà della risposta sanzionatoria carceraria sia fortemente arbitraria, priva di alcun fondamento razionale, scientifico e anche criminologico. Le condotte costituenti reato coprono oltretutto una gamma estremamente diversificata di tipologie e per talune di esse la punizione della persona come tale è apertamente irragionevole, tanto che sorprende come possa essere stata mantenuta fino ad oggi, se non per conformismo e conservatorismo irriflesso del pensiero. Ma sotto questo profilo (qualitativo) e

giovedì 19 febbraio 2015

Amore, aglio, anarchia

di Luigi Corvaglia
 
 
Karl Kraus, uno dei più brillanti autori di quelle condensazioni semantiche note come aforismi, scrisse che “Un aforisma non è mai una verità: o è una mezza verità o è una verità e mezzo.” E’ l’aforisma perfetto! Vi si ritrova il senso, l’arguzia, il paradosso, la mezza verità e, ovviamente, la verità e mezzo. Ma la definizione migliore è forse quella di Nilt Ejam: “un aforisma è molto sfizio in poco spazio”. Esatto. Senza il gusto del bon mot o di una iperbole, una locuzione rimane un’osservazione, si mantiene al livello di semplice riflessione. Il successo degli aforismi risiede invece nel grottesco e nel paradosso oppure nella grande capacità condensativa di ampi principi filosofici e morali.
Oscar Wilde, splendida mente di libertario, ne fece un’arte producendo schizzi di autocompiaciuta fatuità (“Amo molto parlare di niente. È la sola cosa su cui so tutto.”) e umoristiche sentenze sulla virtù del vizio (“La moderazione è una cosa fatale. Nulla ha più successo dell’eccesso.”). Nell’ambito del pensiero politico c’è un’idea che più di ogni altra si può gloriare di molti arguti aforismi: l’anarchismo. Ciò va detto ad onore dei pensatori anarchici, in grado di condensare principi e saperi in formule che, occupando poco spazio, producono molto sfizio. “L’anarchia è ordine”, ad esempio.
Il motto, il cui gusto è nell’apparente paradosso, si deve all’uomo che per primo osò definirsi “anarchico” in senso positivo, cioè Pierre J. Proudhon. E chi non conosce lo slogan, sempre del tipografo di Becancon, “la proprietà è un furto”? La frase è sfiziosa, appunto, non c’è alcun dubbio, è breve e contiene una dose di verità che va dalla mezza unità all’unità e mezza.

Norberto Bobbio, un filosofo per la partitocrazia

di Fabio Massimo Nicosia

(su suggerimento di alcuni amici, pubblico un mio vecchissimo articolo uscito tanti anni fa su "Il Foglio")


Sapete perché negli Stati Uniti hanno Posner, Dworkin, Axelrod, Rawls, Nozick, Rothbard, e noi abbiamo Bobbio ? Perché gli americani hanno scelto prima. Hanno scelto, cioè, la libertà della ricerca, e non il conformismo accademico. Quando scrive di filosofia del diritto (jurisprudence) o della politica, un autore americano sa che sarà tanto più apprezzato, quanto più si interrogherà sui fondamenti ultimi della disciplina e contribuirà alla sua evoluzione; da noi invece chi propone punti di vista inediti è percepito come uno stravagante velleitario, che ignora la prima regola della nostra
"ricerca": mai esprimere, se non dubitativamente e scusandosi con il lettore, un proprio pensiero, e preferibilmente illustrare il pensiero altrui. Sicchè oggi, non essendoci veruno che esprima un pur tenue pensiero proprio, non è più possibile nemmeno scrivere sul pensiero altrui
Pensate a Bruno Leoni: l'unico nostro filosofo del diritto davvero grande e originale, nonché l'unico coerentemente liberale in questo secolo, è tuttora del tutto assente dai manuali nostrani (naturalmente negli Stati Uniti è considerato pensatore fondamentale: chiedete a James Buchanan). Ma Leoni non
era bobbiano; sicchè il nostro vate può permettersi ancor oggi di ignorarlo, come nella sua recente autobiografia, ove si limita a una sola, ingiuriosa segnalazione come "giurista" (anch'io faccio il "giurista", ma mia madre mi crede cantante in un eros-center). Piccole meschinità; e dire che, in un
momento di sincerità, Bobbio ammise di non essere "mai venuto a capo" delle idee di Leoni!
Sia chiaro che non mi interessa nulla della vicenda del Bobbio "fascista", che scrive a Mussolini per ottenere la cattedra. Non l'aspetto etico è preoccupante, ma quello scientifico e ideale: il fatto che Bobbio sia considerato un grande filosofo, nonché un grande liberale. Il fatto è che Bobbio non è né grande, né liberale. Chiunque di media cultura abbia letto "Destra e sinistra" (Donizelli, 1994), non può non aver provato imbarazzo di fronte a un simile Harmony della scienza politica, zeppo di massime immortali come le seguenti: "Nietzsche, ispiratore del nazismo" (pag. 23); "Gli estremi si toccano" (pag. 27); "Nel linguaggio politico i buoni e, rispettivamente, i cattivi possono trovarsi tanto a destra quanto a sinistra" (pag. 48). Per non parlare delle prese di posizioni più pensose, come quella secondo la quale gli "estremisti" essendo "autoritari" e i "moderati" "libertari", i libertari-egualitari si collocherebbero nel centro sinistra (pag. 81). Chissà come reagirebbero Bakunin e Stirner, se sapessero di essere rispettivamente di centro-sinistra e di centro-destra!
Naturalmente, nello schema del "liberale" Bobbio l'elemento rappresentato dallo Stato, questo piccolo dettaglio della modernità, non trova alcuna collocazione critica, ma è visto come un dato naturale a priori, come i vulcani e i terremoti (170 milioni di morti provocati dagli Stati nel XX secolo, e la tassazione al 60%, saranno di destra o di sinistra ?).
Il bijou di Destra e Sinistra si trova peraltro, come spesso capita ai capolavori, in una nota: la 5 di pagina 78, nella quale il Maestro sostiene che l'art. 3 della Costituzione, secondo il quale "Tutti i cittadini hanno parità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lungua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali", non determinerebbe l'incostituzionalità di una "fantastica" normativa che discriminasse gli "estroversi"; e ciò perché
l'art. 3 non indica esplicitamente l'estroversione tra i motivi di non discriminazione. Che l'"estroversione" possa farsi rientrare nella nozione di "condizioni personali e sociali" non sfiora il nostro grande filosofo del diritto (Bobbio non è mica un "giurista" qualsiasi).
Il Bobbio più noto è quello degli ultimi anni, ulivista e veltroniano, sempre intento a meditare sulle sorti della Democrazia, della Repubblica e della Stampa. Ma il Bobbio davvero importante, che "rimarrà", è quello delle dispense universitarie e dei saggi gius-filosofici. Bobbio non ha mai
scritto un libro che sia uno (i suoi sono tutti raccolte di saggi o di lezioni), e questo non è detto sia un difetto; mi fa specie piuttosto -devo ripetermi- che Bobbio sia considerato un filosofo del diritto liberale. Del liberalismo di Bobbio si doveva già dubitare ai tempi di Politica e cultura: per anni i nostri maggiori ci hanno additato come esempio di rigore anticomunista gli scritti raccolti negli anni '50 in quell'antologia.
Senonchè quel poco di cultura liberale che si aggira nel nostro Paese ha ben poco di che inorgoglirsi di fronte a genuflessioni al cospetto togliattiano, del tipo "sulle divergenze tra il compagno Viscinskij e noi", quali le seguenti: "Le dichiarazioni di Stalin sul movimento dei Partigiani della
Pace... confermano alcuni dubbi che sono stati più volte formulati sulla natura e sull'efficacia di questo movimento. Data l'autorità della voce da cui questi dubbi traggono conferma,..." (pag. 72); "...nonostante le tesi sembra che siano stati fatti dal regime sovietico grandi passi verso lo stato di diritto via via che esso si è venuto consolidando" (pag. 155). E così via.

Ciò che più in generale colpisce è il la timidezza, l'atteggiamento subalterno, con il quale Bobbio va compitando le sue banalità "liberali" (della serie "la libertà è un valore universale") rivolte ai suoi ben più agguerriti e motivati interlocutori comunisti.
Ma torniamo al filosofo del diritto. Bobbio è anzitutto considerato, con riferimento soprattutto alla sua prima fase, un "filosofo analitico", sostenitore di un approccio linguistico al diritto. In realtà, chi
pretendesse di rinvenire nel Nostro le sottigliezze argomentative dei veri filosofi analitici (da Austin a Searle), sbaglierebbe indirizzo. In Bobbio, l'"analisi" si riduce a una generica invocazione al "rigore" nell'approccio linguistico-normativo; ma non riesce a evitare cadute grossolane, come quando nega il carattere empirico della norma giuridica, in quanto regola sul comportamento "futuro" e non rappresentazione di un evento accaduto (Scienza del diritto e analisi del linguaggio, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1950, pag. 354): quasi che il riferimento al "futuro" fosse elemento incompatibile con il carattere empirico di una proposizione. La confusione tra "empiricità" e "attualità" di un enunciato è un vero e proprio strafalcione: non occorre infatti la volumetria cranica  di Wittgenstein o di Carnap, per comprendere che "Domani pioverà" è enunciato empirico non meno di "Oggi piove", pari essendo la verificabilità di entrambi: basta un po' più di pazienza nel primo caso.
Il fatto è che, negando il fondamento empirico della norma giuridica, Bobbio vuole salvaguardare la sovranità del legislatore, svincolandolo da ogni limite di contenuto: da qui il suo malinteso "positivismo giuridico". Bobbio è infatti considerato, almeno per una certa sua fase, un kelseniano (poi ha seguito tutte le mode, dal funzionalismo al neo gius-naturalismo in nome dell'O.N.U.).
Un formalista-realista come Kelsen, peraltro, non si sarebbe mai sognato di scrivere: "La nostra vita si svolge in un mondo di norme. Crediamo di esser liberi, ma in realtà siamo avvolti in una fittissima rete di regole di condotta, che dalla nascita sino alla morte dirigono in questa o quella direzione le nostre azioni" (Teoria della norma giuridica, Giappichelli, 1958, 3). Come si vede, abbiamo qui l'idea di un diritto un po' Mago Merlino e un po' new age; affascinante, ma il liberalismo che c'entra?
La verità è che l'impostazione di Kelsen, pur con le sue rigidità, era assai più liberale di quella di Bobbio; per Kelsen non v'era sovranità possibile al di fuori del diritto,

Diritto umano alla conoscenza, rule of law e deperimento del potere


di Fabio Massimo Nicosia

Capita sovente che Marco Pannella sia attraversato da intuizioni fulminanti, che meritano poi di essere sviscerate in tutte le loro potenzialità e implicazioni. L’ultima di queste è quella della proposta di previsione a livello internazionale di un “diritto umano alla conoscenza”, come caposaldo di una rinnovata teorica dello stato di diritto o rule of law.

Perché questa proposta è importante, a nostro avviso? Perché il diritto alla conoscenza sugli atti del pubblico potere si lega strettamente alla previsione del loro sindacato di legittimità dal punto di vista del diritto, essendo ovvio che se questi non sono noti, non possono essere nemmeno giudicati in quanto legittimi o illegittimi.

Si pensi che per il maggior teorico moderno dello stato di diritto, Hans Kelsen, non v’è atto dello Stato che sia immaginabile se non giuridificato, al che si contrapponeva la visione del rivale Carl Schmitt, secondo il quale la politica ha sempre la meglio sul diritto: Schmitt aveva dalla sua il realismo, ma non era certo un teorico liberale!

Il problema è dunque quello dei cosiddetti “arcana imperii”: possono essere questi sottoposti a trasparenza e, così (esito utile del principio di trasparenza e conoscenza) sottoposti a sindacato di legittimità?

Ovvio che se tutti gli atti del potere fossero giuridificati, come voleva Kelsen, il potere semplicemente andrebbe incontro a un graduale processo di deperimento: come diceva lo stesso Pannella negli anni ’70, il diritto come strumento di deperimento del potere.

Facciamo un esempio banale: il patto del Nazareno. Nessuno sa esattamente che cosa contenga o contenesse. E allora i grillini che cosa hanno pensato di fare? Hanno denunciato Renzi e Berlusconi per non si sa quale reato, al fine di “conoscere” il contenuto di quel patto. Il fatto è che gli accordi politici sono sottratti a qualunque verifica di legittimità, ma ciò non deve indurre a pensare che il rafforzamento dei checks and balances debba andare a vantaggio… dei pubblici ministeri! Si tratta quindi di introdurre meccanismi costituzionali e amministrativi di conoscenza, che non siano un rimedio peggiore del male.

La questione, come è evidente, assume maggiore rilievo a livello di politica estera e internazionale, al conseguente ruolo dei servizi segreti, basti pensare al peso storicamente accresciuto del Presidente USA, con progressivo accentramento del potere in quello Stato, in conseguenza dell’acquisto del crescente ruolo di potenza di quel Paese. Persino la guerra è sottoposta a un diritto bellico, per quanto questo non basti a evitare le guerre.


martedì 17 febbraio 2015

Economia, Stato, Anarchia

di Fabio Massimo Nicosia


Economia, stato, anarchia (regole, proprietà e produzione fra dominio e libertà, Elèuthera, 2014) di Guido Candela, è un libro importante per tante ragioni, ma quella su cui vogliamo concentrarci è che l’autore, economista, è un anarchico classico che, contrariamente alla più parte dei suoi “correligionari”, prende sul serio il libertarianism e l’anarco-capitalismo.

Peccato però che lo faccia prevalentemente con la versione “statalista” di Robert Nozick, che è un interlocutore costante del volume, anche se Rothbard non viene affatto ignorato, e David Friedman viene almeno citato (il nostro giudizio positivo è minimamente influenzato dal fatto che l’autore ricordi anche il nostro “Dittatore libertario”!).

Dato il taglio che vogliamo dare alla nostra recensione, vediamo allora subito che cosa non funziona nella dottrina di Nozick, nei limiti in cui viene presa in considerazione da Candela.

Perchè l'antiproibizionismo è logico (e morale)


di Blast

Avevamo pensato di intitolare questa recensione “Libero sesso, libera droga, al posto di Andreotti vogliamo Paperoga”, ma forse Persio Tincani non avrebbe gradito. E allora abbiamo ripiegato sul titolo del suo importante lavoro (Sironi Editore), che smaschera tutte le truffe pseudo-argomentative dei beceri proibizionisti di tutto il mondo, che purtroppo tuttora dominano in questa materia.

Semmai si può dire che Tincani è troppo pessimista (il libro è del 2012, e andrebbe distribuito nelle scuole), dato che negli ultimi mesi vediamo un fiorire di politiche anti-proibizioniste, almeno negli Usa, e almeno con riferimento alla cannabis, alla cui parziale legalizzazione pare non sia contrario lo stesso Obama.

lunedì 9 febbraio 2015

Max Stirner, Adam Smith e il superamento anarchico del liberismo radicale

di Domenico Letizia

Una di­stin­zio­ne fon­da­men­ta­le tra l’ap­proc­cio del fi­lo­so­fo anar­chi­co te­de­sco Max Stir­ner -au­to­re del fa­mo­so L’u­ni­co e la sua pro­prie­tà- e la scien­za po­li­ti­ca, an­che di am­bi­to li­ber­ta­rio, con­si­ste nel con­si­de­ra­re non so­lo lo sta­to, ma an­che la so­cie­tà co­me frut­to del­la coer­ci­zio­ne e del­l’im­po­si­zio­ne, co­sic­ché an­ch’es­sa ne­ghe­reb­be la ve­ra es­sen­za e la li­be­ra in­te­ra­zio­ne de­gli in­di­vi­dui. Il mes­sag­gio di Stir­ner è ap­pa­ren­te­men­te sem­pli­ce, ma pro­fon­da­men­te com­ples­so, per­ché, co­me af­fer­ma En­ri­co Fer­ri, stu­dio­so del­lo stes­so Stir­ner, «il pas­so che (egli) vuo­le far com­pie­re è quel­lo di una ge­ne­ra­liz­za­ta pre­sa di co­scien­za del pro­prio egoi­smo e di una al­tret­tan­to dif­fu­sa tra­sfor­ma­zio­ne del­la vi­ta e del­le re­la­zio­ni uma­ne in mo­do ade­gua­to, con­for­me al­l’e­goi­smo». Per Stir­ner, in­fat­ti, l’al­ter­na­ti­va al­lo sta­to e al­la so­cie­tà sem­bra es­se­re, da un pun­to di vi­sta an­tro­po­lo­gi­co-giu­ri­di­co, una re­te di li­be­re as­so­cia­zio­ni, al­cu­ne coo­pe­ran­ti su ba­se fe­de­ra­li­sta.

venerdì 6 febbraio 2015

Perchè i radicali hanno bisogno degli anarchici (e viceversa)

di Fabio Massimo Nicosia

Giampietro “Nico” Berti non è un ultimo arrivato nel mondo della cultura anarchica italiana, e non solo. Ha pubblicato fior di testi sul pensiero e sulla storia del movimento anarchico, l’ultimo dei quali (Libertà senza rivoluzione, Lacaita, 2012) segna una cesura col movimento stesso, sfidandolo sul piano di alcuni dogmi e miti, come quello della rivoluzione, del socialismo se non del comunismo. Berti ha invitato il mondo anarchico al confronto con il mondo liberal-democratico, cosa che gli anarchici si sono sempre rifiutati di fare, finendo, come icasticamente dichiara Berti, con il rappresentare solo se stessi.
Come è noto, gli anarchici non votano, non fanno “politica” (fanno delle “lotte” per lo più ininfluenti), non puntano a governare il Paese, e tuttavia sono custodi di una grande tradizione di pensiero, che ben pochi possono vantare: Godwin, Proudhon, Stirner, Bakunin, Kropotkin, Malatesta, Berneri, sono lì a dimostrare come un pensiero possa essere pluralistico e al tempo stesso importante, a differenza di quanto accade col marxismo, che persino nel nome rimanda a un unico padre fondatore.

martedì 3 febbraio 2015

Giustizia relativa, pena assoluta e il ruolo dei radicali sulle carceri


di Riccardo Battaglia

L’Italia è un Paese bizzarro. Sapete che mestiere fa il personaggio che più di ogni altro oggi si batte per l’abolizione del carcere? La pianista? La librettista d’opera di musica contemporanea? Esatto! Ma forse vi sorprenderà di più che la sua occupazione principale è quella di Sostituto Procuratore della Repubblica, a Pesaro per l’esattezza.

In un suo testo pubblicato dalla gloriosa Liberilibri nel 2011 (Giustizia relativa e pena assoluta), Silvia Cecchi argomenta da par suo su tale delicata questione. Non aspettatevi affermazioni mirabolanti e guerrigliere, si tratta di una “moderata”! La Cecchi semplicemente sostiene che il carcere, nella sua essenza punitiva, retributiva e afflittiva, semplicemente contrasta con l’art. 27 della Costituzione, secondo il quale la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, senza con questo ristorare in alcun modo le vittime.

lunedì 2 febbraio 2015

Jefferson, le banche e la "bolla finanziaria"

di Giulio Giorello
 
 
«Le banche si sono condannate a morte da sole», scriveva nel 1817 Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti (1800-1807), a Thomas Cooper, uno dei più importanti sostenitori americani della fisiocrazia (la dottrina che vede nell’agricoltura il fondamento delle attività economiche). In quell’occasione si dichiarava convinto che l’ammanco di trecento milioni di dollari (di allora) da parte delle banche americane e il loro rifiuto di pagare i creditori potesse segnare la loro scomparsa dalla scena! Ma «grazie alla stupidità dei nostri cittadini e all’acquiescenza dei nostri legislatori», i banchieri avevano letteralmente saccheggiato la giovane nazione, spendendo i soldi del popolo in «case sontuose, eleganti carrozze e cene di lusso». Il terzo presidente non aveva mai nascosto la sua avversione per un sistema bancario tanto svincolato da qualsiasi forma di pubblico controllo da «minacciare le stesse istituzioni repubblicane». E già un anno prima della crisi del 1817 a un altro suo corrispondente aveva denunciato «la bolla finanziaria» (suo termine) che affliggeva come una pericolosa malattia i cittadini della nuova America, i quali, «come l’idropico chiede acqua in continuazione», invocavano «banche, banche, banche», in una sorta di «stato febbrile» non troppo diverso da quello che aveva tormentato i Paesi del vecchio mondo. A questa patologia Jefferson si era da sempre opposto non con semplici denunce morali («come avrebbe fatto Don Chisciotte contro i mulini a vento»), ma con un articolato appello ai farmers, cioè agli agricoltori indipendenti che a suo parere costituivano il nerbo della nazione, non solo dal punto di vista economico ma anche, e soprattutto, da quello politico. La vocazione democratica e repubblicana degli Stati Uniti veniva così indissolubilmente legata all’«industriosità» di tale gruppo sociale, che si sarebbe contraddistinto per la sua capacità di intrapresa economica e di autodeterminazione politica.

Anarchismo, politica e la "libertà senza rivoluzione"


Di Domenico Letizia

 

Le elaborazioni contenute dall’ultimo volume del Berti “Libertà senza Rivoluzione”, che si condividano o no, forniscono una riflessione alla quale ogni sincero libertario e anarchico non può sottrarsi, sia come portata storica, sia come probabile proposta etica politica da attualizzare all’interno del movimento libertario internazionale. La fine della possibilità rivoluzionaria, della rivoluzione sociale, il fallimento catastrofico del comunismo ovunque si sia applicato, hanno decretato non solo una schiacciante vittoria per il capitalismo ma uno scacco enorme per tutto il fronte progressista che deve rivalutare e rianalizzare la società attuale, se non vuole scomparire dal panorama politico, oppure divenire la copia smussata delle formazioni di centro destra, conservatrici. Quello che il movimento libertario deve assolutamente ritenere priorità è una analisi libertaria del fenomeno capitalista, analisi che sia scevra di ogni elaborazione marxista evitando di collocarsi fuori da un’ autentica logica libertaria. Il comunismo è un aspirazione olistica, un progetto che vorrebbe farsi totale ed esaustivo per la realtà, il capitalismo è già di per sé esaustivamente olistico. Il capitalismo è allo stesso tempo il contenitore e il contenuto della “società aperta”, ricordando Popper, per cui la forza del capitalismo vive nel rapporto tra l’oggettiva spinta antropologica allo scambio e la soggettiva spinta antropologica all’acquisizione illimitata. Il capitalismo vi è sempre stato anche se ha preso forma definitiva unicamente quando sono maturate certe condizioni storiche. Ciò su cui dovrebbe riflettere il pensiero libertario moderno è l’affermarsi in modo spontaneo del capitalismo, se non viene impedita con la forza la sua espressione diretta, lo scambio.
La vittoria moderna e definitiva del capitalismo sul comunismo coincide con l’esaurimento della centralità del movimento operario e socialista, dissolvendo, di fatti, il problema della collocazione politica dell’anarchismo. Concepito in termini politico-sociali esso si è sempre collocato all’estrema sinistra; concepito, invece, in termini di teoria politica presenta una maggiore complessità