di Fabio Massimo Nicosia
Una teoria libertaria,
in quanto discorso sull’individuo e sui suoi rapporti con gli altri, non può
che partire dall’individuo stesso, dal suo essere centro di imputazione di
sensazioni e di coscienza, dotato di una propria psicologia e di una propria
conformazione mentale. L’individuo si rapporta con altri individui, ognuno
prigioniero di un corpo, dal quale effonde le proprie manifestazioni esteriori,
e una teoria libertaria ci parla di questi rapporti, configurandoli in un senso
piuttosto che in un altro.
Verrebbe quindi subito
di parlare di una filosofia morale; tuttavia, nostro sforzo è di fondare tale
ipotesi teorica non su principi normativi di tipo etico, tali per cui questi si
impongano come imperativi all’uomo, ma sulle inclinazioni dell’uomo stesso,
sulla sua costituzione psicofisica: occorre infatti considerare che, kantianamente,
un atto compiuto in accordo immediato con la propria inclinazione, anche se considerato
buono in sé considerato o per le sue conseguenze, non è “morale” in senso proprio,
anche se la condotta che sia mero frutto dell’inclinazione può essere a propria
volta perfezionata con la pratica, la riflessione e l’introspezione.
L’inclinazione è quindi
un essere, non un dover essere; non pone obblighi in capo all’uomo, ma lo
esprime direttamente in base alla sua propria costituzione fisiologica. Salvo però
che gli uomini non sono tutti uguali da questo punto di vista, essendo l’inclinazione
un’attitudine dello spirito che varia da uomo e uomo, e quella libertaria è di
alcuni e non di tutti.
Intendiamo infatti per
inclinazione libertaria quella di quegli individui, i quali, non aspirando a
comandare gli altri, ma solo a coltivare autonomamente le proprie propensioni,
non tollerano di essere comandati, e la contrapponiamo all’inclinazione
autoritaria, propria di chi, aspirando viceversa a comandare, ossia a imporsi
sugli altri, ove non vi riesca, si rassegna ad essere comandato, nel momento
stesso in cui riconosce come conforme alla propria natura di esserlo, perché
ritiene che il mondo si divida inevitabilmente in chi comanda e chi è comandato.
L’inclinazione
autoritaria è quindi gravida di implicazioni esterne, dato che dà vita a situazioni
indivisibili di autorità, destinate a imporsi anche a chi vorrebbe sottrarvisi:
in altri termini dà vita a un male pubblico.
L’inclinazione
libertaria è a sua volta una meta-inclinazione, che non riguarda le preferenze
e le scelte specifiche che vengono effettuate, ma tocca la loro forma nei
rapporti con gli altri, la forma appunto libertaria, consistente nel lasciare
all’altro tanto spazio, quanto se ne rivendica per sé; ciò comporta evidentemente
una qualche forma di reciprocità. Il libertario, infatti, non si caratterizza
specificamente per il fatto di mirare alla libertà propria, dato che questo può
essere atteggiamento di chiunque: anche l’autoritario vuole infatti essere
libero nel perseguire i propri scopi. Il libertario si caratterizza semmai per
il fatto di perseguire la libertà propria nel momento stesso in cui persegue
anche quella degli altri in uno spazio comune, che, tecnicamente, si propone
come uno di quelli che la dottrina economica definisce beni pubblici
indivisibili: la libertà è quindi un bene pubblico, la cui realizzazione è
soggetta a rischio di frustrazione da free-riding
da parte di autoritari e acquiescenti.
Ciò potrebbe fare
pensare che rientri nell’essere libertario una certa dose di altruismo, ma si
tratta di un altruismo indiretto, che consegue all’egoismo intelligente di
aspirare a vivere in una più ampia di situazione di libertà, che coinvolge
necessariamente anche gli altri, con la conseguenza che anche le sorti degli
altri non possono non stare a cuore al libertario, essendo strettamente legate
alla propria.
La reciprocità può
essere declinata con formule diverse, ma convergenti, positive e negative: a)
non fare agli altri ciò che essi non vorrebbero sia fatto loro; b) fai agli
altri ciò che essi vorrebbero sia fatto loro; c) tratta gli altri come tu
vorresti essere trattato da loro; d) non trattare gli altri come tu stesso non
vorresti essere trattato.
In termini di teoria
dei giochi, il libertario persegue quindi la strategia della cooperazione, ma
non si consegna inerme agli altri, a meno che la sua debolezza di carattere non
lo conduca all’acquiescenza, sicché i principi di reciprocità vanno integrati
con la massima “sempre che l’altro faccia
altrettanto”, se il libertario, oltre ad auspicarla, persegue attivamente
la libertà ed è disposto a battersi per essa contro chi ne è nemico, chi è
portatore di impedimenti da impedirsi da parte di chi lotta per la libertà,
concetto che abbiamo espresso con la formula, apparentemente ossimorica, della
dittatura libertaria.
In realtà, i principi della
reciprocità presi alla lettera sembrano non tenere conto della diversità di
scala delle preferenze individuali, e potrebbero portare a paradossi: ad
esempio, un masochista dovrebbe trattare gli altri con violenza, dato che lui
stesso vuole essere trattato così, ma la reciprocità di cui parliamo vale
evidentemente al livello formale: se tu vuoi che gli altri agiscano in modo da
procurarti piacere, agisci in modo che l’altro provi piacere dalla tua condotta,
quindi tratta con violenza solo il masochista e non chi non lo è.
Ciò sembra indebolire l’idea
che il libertario possa limitarsi a essere indifferente
alle condizioni altrui, dato che queste massime derivano da un principio: quello
per il quale il conflitto aperto è nemico della condizione di libertà, dato che
favorisce l’instaurarsi di autorità, che vengono agevolmente invocate per
risolvere quelle situazioni di conflitto violento tra posizioni rivelatesi incompatibili.
Ecco allora che se si vuole impedire che ciò avvenga, occorre comportarsi in
modo da prevenire quei conflitti, sicché alla condizione di libertà piena
corrisponde quella di pace, vale a dire che la pace è il contesto in cui possa
inverarsi la libertà come spazio comune, nel quale le diverse personalità
possano pienamente esprimersi. Diversamente, ci troveremmo innanzi a un
conflitto permanente tra autoritari e libertari, in cui le reciproche fermezze
possono forse esprimere la giustificazione di un principio, ma non conducono a
condizioni di vita in sé apprezzabili.
Può darsi addirittura
che i dotati di inclinazione libertaria siano minoranza nell’umanità, sicché si
tratta di capire quale sia la strategia migliore da perseguire, ossia se quella
di ritagliarsi spazi autonomi alternativi, ovvero di porsi come élite, in grado di trascinare l’intera
società, conducendola a migliori traguardi sotto la propria guida “illuminata”;
non sembra che le due diverse strategie siano alternative, dato che, anzi, il
perseguimento di quella che si configura come situazione indivisibile le
richiede entrambe. Il fatto è che l’inclinazione autoritaria trova nutrimento
in molte credenze vigenti, ad esempio quella secondo la quale i migliori fini
della società possono essere perseguiti esclusivamente da un’autorità, la quale
rivendichi, per assicurare l’ordine e altri beni pubblici, il monopolio del
potere: sicché non siamo più nemmeno in grado di comprendere quanto questa
inclinazione sia naturale, e non piuttosto frutto del dominio di una cultura
che la alimenta, consapevolmente o tralaticiamente.
Date queste sommarie
premesse, occorre interrogarsi sulla nozione di libertà, e conviene farlo
muovendo dall’etimologia, dato che molte delle definizioni che conosciamo sono
tautologiche e circolari. Il lemma “libertà” ha radice comune con il concetto
di piacere, sicché essere liberi ha sicuramente a che fare con l’essere in
condizione di fare ciò che piace, ciò che da piacere. Ma se a me desse piacere
prendere a bastonate in testa un’altra persona, sarebbe questa una libertà
degna di essere tutelata per un libertario? La difficoltà è solo apparente, se
si parte dalla libertà come situazione indivisibile alle parti. La libertà da
una parte sola, ossia la situazione in cui uno prova piacere sottomettendo un
altro, non può essere definita propriamente di libertà, ma di supremazia,
mentre la condizione dell’altro sarebbe propriamente di soggezione.
Il fatto è che una
teoria fondata sull’inclinazione libertaria non ammette tutte le condotte, ma
ne vieta alcune; vieta, in particolare, tutte quelle facoltà naturali che
sarebbero viceversa riconducibili all’inclinazione autoritaria. Siamo al limite
del paradosso, perché, effettivamente, l’inclinazione autoritaria ammette più
condotte di quante non ne ammetta l’inclinazione libertaria, volta alla
costituzione di uno spazio comune aperto nel quale tutte le parti coinvolte
massimizzino simultaneamente le reciproche facoltà compatibili tra le parti stesse, laddove l’inclinazione autoritaria
ammette anche condotte non compatibili, ma ciò da una parte sola, a detrimento
cioè delle potenzialità espressive di una o più delle parti in causa.
Emerge qui un altro
elemento etimologico del lemma libertà, la comunanza della sua radice con
quella di libbra, ossia di peso in bilanciamento con altri; la libertà dà
quindi l’idea di una bilancia in situazione di equilibrio, in cui un piatto non
abbia peso maggiore dell’altro. Ne deriva che una situazione di libertà non può
essere constata avendo a mente la condizione di una sola parte, ma richiede una
valutazione di situazione intersoggettiva, se non di sistema, una volta appunto
che si sia accolta una visione della libertà come bene indivisibile. Un uomo “libero”,
in effetti, prova piacere nel constatare che sia libero anche l’altro, perché
sa che la libertà dell’altro alimenta la propria; ciò non significa che il
dotato di inclinazione libertaria non possa mai adottare le condotte proprie
dell’inclinazione autoritaria, ma queste sono ammesse solo in negativo, quando
si tratti di impedire gli impedimenti posti in essere dall’autoritario. Ad
esempio, uno schiavo incatenato potrà adottare condotte violente per liberarsi
dal proprio stato, fintantoché questo stato perduri, in quanto, in questo caso,
la condotta violenta è volta esclusivamente a liberarsi dallo stato di
costrizione. Opera qui il principio della inesigibilità:
vale a dire che non si può pretendere in chi sia privo della libertà di
rispettare il principio del divieto delle facoltà naturali aggressive, ed è
questo il principio proprio dello stato di necessità: in stato di necessità
tutte le condotte sono ammesse, tutti i diritti vengono rimessi in discussione,
compresi quelli che fossero libertariamente legittimi, figurarsi quelli
illeciti, propri dell’esercizio delle facoltà autoritarie.
La libertà reca quindi
con sé un concezione del diritto, che non può dirsi, però, si badi,
giusnaturalista, se non in termini molto lati e imprecisi. La “natura”,
infatti, non fornisce valori univoci, ma contraddittori. Sia l’inclinazione
libertaria, sia quella autoritaria, infatti, esistono in natura, e danno vita
ciascuna a implicazioni normative diverse, anzi opposte. E infatti si è visto
che anche le condotte proprie dell’inclinazione autoritaria, vietate dall’inclinazione
libertaria se non in stato di necessità, sono perfettamente “naturali”:
naturali le une, naturali le altre. Salvo che alcune sono compatibili con la
libertà e altre no. Se solo la libertà fosse naturale, e non anche l’autorità,
infatti, non staremmo a discutere, basterebbe lasciare tutto fluire così com’è,
e la libertà trionferebbe. Invece così non è, dato il formarsi di credenze
favorevoli all’autorità, che non possono evidentemente non avere un qualche
radicamento in inclinazioni naturali di molte persone, inclinazioni che, dal
punto di vista libertario, vanno corrette, sicché la condizione indivisibile di
libertà è un delicato stato alquanto artificiale, che va deliberatamente perseguito
dai libertari.
Del resto, il grado di
tolleranza alla coercizione è soggettivo, il che impedisce affermazioni
apodittiche su quando vi sia coercizione e quando vi sia stato di libertà, ad
esempio ritenere che solo l’aggressione fisica sia azione lesiva di libertà. La
scienza del diritto, nei secoli, ha elaborato nozioni di violenza molto più
sfumate, in grado enucleare situazioni di illiceità molto più variegate, anche
se il controllo fisico sul corpo altrui rappresenta la situazione di
coercizione più lampante.
Emerge qui la classica
distinzione tra libertà negativa e libertà positiva. I libertari di scuola
liberale, infatti, vedono la lesione della libertà solo nelle violazioni di
libertà negativa, la libertà “da”, ossia appunto dalla costrizione; mentre la
libertà positiva sarebbe una condizione nella quale sia concreta la possibilità
“di” fare, di agire concretamente. Il fatto è, si dice, che essere dotati di
mezzi concreti per agire richiede un intervento che potrebbe essere coercitivo
su altri al fine di ottenere quei mezzi (ad esempio, attraverso l’intermediazione
dello Stato), e ciò non sarebbe compatibile con i principi libertari, i quali
quindi si limiterebbero a considerare la libertà “da”. Esistono però situazioni
nelle quali la libertà positiva è perfettamente riconducibile alla libertà
negativa, e ciò avviene tutte le volte in cui la mancanza di mezzi concreti per
agire deriva da lesioni di libertà negativa, con la conseguenza che immaginare
l’attribuzione di mezzi per agire materialmente si configura come esito di un
risarcimento del danno da lesione di libertà negativa.
Un esempio è il divieto
di libero conio che viviamo sostanzialmente nella nostra società, con la
conseguenza che un’attribuzione patrimoniale positiva, nei termini dell’utile
universale, della rendita di esistenza o del reddito di base di cittadinanza,
non sarebbe altro che un indennizzo per il fatto che il libero conio è
proibito, con conseguente sottrazione di mezzi per il libero sostentamento da
parte di ognuno. In tale quadro, la stessa libertà positiva è riconducibile
alla nozione di libertà negativa, in quanto esito di un risarcimento del danno
per lesione di quest’ultima.
*****
Un libertario non ama
farsi imporre le cose, non riesce a dare fondamenti a “obblighi”, che non siano
autofondati, che non siano frutto di un sentimento interiore, con la
conseguenza che l’obbligo perdura solo sin quando perdura il sentimento di
obbligazione; sono invece esclusi obblighi di fonte esclusivamente eteronoma.
Il “tu devi” di A non
comporta mai obblighi –morali, giuridici- in capo a B. Il libertario nega
qualsiasi fondamento all’obbligazione, quindi anche all’obbligazione politica,
che non sia il proprio effettivo consenso alla fonte del preteso obbligo, mentre
il dotato di inclinazione autoritaria, quando, come nella maggior parte dei
casi, non riesce ad assurgere a posizioni di comando, subisce passivamente gli
imperativi dell’autorità, almeno sin quando questi non vadano platealmente
contro il suo interesse, e allora si rivolterà, non per spirito libertario, ma
per il rifiuto di subir danno, che è in capo a ogni uomo, sia esso libertario o
autoritario.
Ne deriva un’implicazione
fondamentale: dal punto di vista libertario, la Terra è di proprietà comune
agli uomini.
Occorre infatti
considerare che le attività umane si svolgono sul territorio, con l’implicazione
che ogni atto di autorità si rivela, in ultima analisi, un atto di gestione
imperativa e unilaterale del territorio. Icastico esempio è quello dell’erezione
di un muro, volto a impedire il passaggio, come nel caso di perimetrazione di
un possesso, teso a volgerlo in proprietà inviolabile.
Orbene, se A erige un
muro con una tale finalità, perché B dovrebbe considerare “obbligatori” gli
effetti di quel muro, fuori da un suo attivo consenso? Può un bruto fatto come
un muro essere fonte di obblighi? Si dirà che, erigendolo, A avrebbe “lavorato”,
e ciò attribuirebbe valenza etica al suo atto. Ma ciò che per A è lavoro per B
potrebbe essere una semplice esternalità negativa, un atto emulativo nell’accezione
civilistica, ossia di puro danno per lui.
Il senso dell’utilità
del lavoro altrui è soggettivo, per cui, comparando il tuo vantaggio, derivante
dall’erezione del muro, con il danno da me subito dalla stessa, io potrei
concludere che ne ricavo più danni che vantaggi, e quindi sarei perfettamente
titolato ad oppormi a tale erezione, fino a legittimarne la demolizione;
legittimazione derivante dall’assenza di alcun obbligo in mio capo a rispettare
un muro che mi danneggia, senza che su di me ricada alcun obbligo a rispettare
la bruta esistenza del muro.
Ne deriva che una
proprietà privata, che sia legittimamente fondata dal punto di vista
libertario, non può che fondarsi sul consenso; in altri termini, sul
proprietario ricade l’onere di dimostrare utile per gli altri la sua proprietà,
pena il mancato rispetto della stessa da parte della comunità. Il “tu devi” di
A non comporta obblighi morali e giuridici per B, si diceva, men che meno hanno
effetti normativi i comportamenti materiali di A nei confronti di B, fatta
salva la loro capacità di effettiva imposizione, ma allora saremmo al di fuori
dei derivati dell’inclinazione libertaria, per ricadere nel mero rapporto di
forza, che opera anche in presenza di inclinazione autoritaria. La proprietà è
quindi istituto ambivalente, dato che può essere fondato sia dall’autorità –la maggior
forza- sia dalla libertà –il consenso del destinatario-, ma in tal caso il
consenso deriva da un giudizio di utilità da parte del non proprietario.
Ora, perché B dovrebbe
mai attribuire il proprio consenso alla condotta materiale di A, al di fuori di
uno specifico vantaggio anche per lui in conseguenza di quella condotta? Il
vantaggio potrebbe consistere in una reciprocità: A diviene proprietario, ma
altrettanto capita a B, dato che, nel momento stesso in cui A erige il muro,
riconosce il diritto di B di fare altrettanto e di divenire proprietario di una
porzione di terreno altrettanta e altrettanto buona (proviso di Locke). Ma B potrebbe non avere alcun interesse a tale
forma di compensazione, preferendo poter circolare liberamente in tutti gli
spazi, e quindi non appagandosi del riconoscimento a uno spazio esclusivo
assegnato a lui. In tal caso il suo consenso andrebbe “acquistato” con altre
forme, in primis quella monetaria,
dato che il denaro rappresenta un medium
universale di circolazione e di acquisizione dei beni. Ne deriva che B potrebbe
acconsentire alla proprietà di B esclusivamente ove indennizzato monetariamente
per la privazione di spazi liberi a sua disposizione.
Essere proprietario
diviene quindi costoso per il proprietario, a meno che la sua pretesa
possessoria non sia contenuta, ad esempio limitata ad esigenze essenziali (l’abitazione,
l’esercizio di un’attività imprenditoriali ritenuta utile dagli altri), tale da
consentire un grado di reciprocità accettabile da B.
Dal ragionamento che
precede deriva che A e B sono parimenti comproprietari del territorio, in
origine, dato che il consenso di B è indispensabile ad A per potere rivendicare
un uso esclusivo di una porzione. La proprietà è istituto relazionale e
ambivalente, dato che, da un lato, è desiderata per il fatto di consentire
quell’uso esclusivo, ma, dall’altro, comporta lesione della libertà negativa
per chi da quell’uso esclusivo viene privato della libertà di circolazione, e
la lesione di libertà negativa deve poter essere risarcita. In tale quadro, la
lesione di libertà negativa corrisponde ai diritti di comproprietà di B, sicché
il risarcimento del danno subito assume i caratteri di una rendita, dovuta all’essere
contitolare del suolo.
Posto che tale libertà
negativa –la libertà “da” le appropriazioni unilaterali non vantaggiose- è in
capo a ciascun uomo, tale rendita compete a ogni individuo per il fatto stesso
di esistere, e quindi si tratta propriamente di una “rendita di esistenza”,
spettante a ciascuno in quanto comunista (comproprietario) del suolo.
Quanto precede vale in
termini analitici ipotizzando una situazione originaria, dalla quale muovere i
primi passi: erezione del muro, compensazione conseguente. Ma vale anche a
invalidare la situazione attuale, nel momento in cui la grande parte degli
uomini non viene compensata per il fatto di essere tenuta a prestare consenso
forzoso alle titolarità di beni altrui.
Ciò non significa che
una teoria libertaria sostenga che le ricchezze debbano essere “uguali” tra gli
uomini. L’uguaglianza è una pretesa eccessiva, che conduce dritti a un
paradosso: solo un’autorità irresistibile potrebbe assicurare tale uguaglianza,
frutto di appiattimento coercitivo; ma la presenza di una simile autorità
irresistibile già sarebbe di per sé deroga
all’uguaglianza (di potere), con la conseguenza che l’uguaglianza è
semplicemente impossibile, se non limitata agli appiattiti, mentre l’appiattitore
si ergerebbe sugli altri, appunto in deroga all’uguaglianza delle condizioni di
tutti.
La diversità di condizioni
è quindi propria in un contesto libertario; se non ci fosse la facoltà di
differenziarsi non ci sarebbe libertà; ma questa diseguaglianza è attutita dal
fatto che è connaturata ai principi libertari la contitolarità di una rendita
sul suolo occupato a titolo di comproprietà comunista (in senso civilistico),
sicché non produce mai esiti devastanti, dato che anche il più svantaggiato tra
gli uomini dispone di una porzione di Terra pro
quota, e, di conseguenza, di un retrostante monetario, fondamento del
libero conio: come si è detto, in situazione di divieto del libero conio, tale
lesione di libertà richiede autonoma compensazione, attraverso il
riconoscimento a ognuno di un utile universale, che è l’istituto speculare al
libero conio; al punto che si potrebbe dire che, con il libero conio, ogni
individuo non fa che emettere da sé la quota di utile universale di propria
spettanza.
L’utile universale è,
più precisamente, l’istituto in forza del quale qualsiasi attività sia condotta
con l’impiego di capitale naturale, che, per le ragioni esposte, è capitale
comune, comporta un riconoscimento di una quota di utile in capo a tutti i
comunisti, vale a dire a tutti i situati sul suolo terrestre.
Ma come si calcola
questo utile universale? Occorre considerare che ogni attività di intrapresa
utilizza quote di capitale che sono di proprietà originaria comune, comuni
anche all’imprenditore, quindi. Ma l’imprenditore se ne appropria in via
esclusiva, al fine di ricavarne un utile. Egli quindi scambia la propria quota
di utile universale con l’aspettativa di un utile individuale, che deve però
remunerare i comunisti, dei quali egli è parte. Ne deriva che, in linea di
principio, anche l’imprenditore ha diritto a titolo di utile universale della
quota di risorse che consuma nel processo produttivo, quota che va in
compensazione con l’utile individuale.
L’utile universale,
conseguente al consumo di risorse naturali nel ciclo produttivo, va quindi a
incidere sul prezzo finale del bene prodotto, che sarà tanto più alto, quanto
maggiore sarà il consumo di capitale comune nel ciclo. Ciò rappresenta un
incentivo nei confronti di processi produttivi leggeri, operando quale
contrappeso alla produzione, in quanto la necessità di versare una quota di
utile alla comunità finisce con il rendere, per l’imprenditore,
desiderabilmente bassa questa quota.
Come si vede, l’idea
della proprietà originariamente comune del suolo e del capitale naturale opera
in senso ecologista nel sistema, dato che l’impronta ecologica incide
immediatamente sui costi e sul prezzo, evitando dissimulazioni, che finiscono
con lo scaricare sulla collettività i costi ecologici della produzione.
In questo modo, si
realizzano per via spontanea i due principi di giustizia di Rawls, dato che il
primato della libertà –tutto quanto abbiamo sin qui espresso non sono altro che
implicazioni logiche dell’implicazione libertaria- conduce a combinare utile
individuale, frutto tutelato dell’intrapresa individuale, con l’utile comune,
esito del fatto che nel processo produttivo individuale sono utilizzate risorse
di capitale comune, dato che, val la pena di ripetere, dall’impossibilità, per
A, di imporre obblighi per B, deriva che nel processo produttivo di A sono
coinvolte risorse di cui B è titolare, con la conseguenza che egli trae utili
dall’attività imprenditoriale di A. E non utili indebiti, ma conseguenti alle
sue titolarità proprietarie sulle risorse impiegate. La restrizione rawlsiana è
rispettata, perché a ogni incremento di utilità individuale per l’imprenditore
corrisponde l’incremento di utile universale, dovuto al fatto che il ciclo
volto alla produzione dell’utile individuale sono impiegate risorse di capitale
naturale comune.
*****
Da quanto precede,
emerge come l’inclinazione libertaria contempli il mercato. Il mercato è la rete dei negozi giuridici, intessuta tra
tutti gli individui che occupano il globo. Esso non presuppone che siano
predefiniti diritti di proprietà, dato che, come abbiamo visto, esistono
interazioni economiche già in regime di comunione della Terra. I diritti di
proprietà individuali, infatti, scaturiscono da quelle interazioni, attraverso
la compensazione del sacrificato dagli impossessamenti individuali. Più
esattamente, quindi, il proprietario individuale è un usufruttuario rispetto a una proprietà che l’assioma libertario (l’impossibilità
per A di imporre unilateralmente obblighi a B) vuole comune.
Il mercato, però, è una
funzione della scarsità. Ipotizzando infatti che ci sia tanta terra a
disposizione di chiunque, consentendo a ciascuno di impossessarsene di una
porzione, non c’è bisogno di questa compensazione. Il mercato è una modalità di
spartizione di risorse scarse, come dimostra il fatto che se di un bene –in ipotesi,
il pane- vi fosse piena abbondanza, non ci sarebbe bisogno di spartirlo tra gli
individui, potendo ognuno appropriarsene liberamente, secondo il modello della presa nel mucchio comunista.
Questo è un approdo al
quale potrà giungersi quando l’automazione delle macchine, sostituendo la pena
del lavoro, potrà produrre beni in abbondanza, in modo tale che ognuno possa
appropriarsene senza necessità di compensare altri; ancora per un lungo
periodo, tuttavia, ciò non sarà, se non gradualmente per alcuni beni e non per
altri. Per i beni che continueranno a essere scarsi, quindi, continuerà a
operare il criterio di ripartizione del mercato, con ogni conseguente
disuguaglianza anche economica –ossia, non solo dovuta a elementi di carattere
personale- tra gli individui, con il rimedio dell’utile universale, che rende
non devastanti le conseguenze della diseguaglianza.
Di “mercato” si possono
proporre due nozioni distinte, una prescrittiva,
corrispondente al mercato libertario, nel quale siano rispettate tutte le
restrizioni sopra indicate, e una descrittiva,
che abbia a mente il mercato come oggi lo conosciamo. Il mercato attuale, in
effetti, ha ben poco a che vedere con quello libertario, dato che le
assegnazioni dei titoli di proprietà, nella storia, non sono avvenute nel
rispetto delle restrizioni libertarie, ma sono avvenute sulla base di
appropriazioni forzose, favorite da istituzioni come lo Stato, che rivendicano
il monopolio della coercizione, sulla base di proprie leggi, che sono, nella
più parte dei casi, vere e proprie leggi-provvedimento a vantaggio ora di
questo ora di quello. Lo Stato, in particolare, favorisce il costituirsi di
monopoli e di situazioni protette nel mercato, e si propone direttamente come
soggetto suo, ma con l’inefficienza propria di chi rivendica l’esclusiva
forzosa in molti settori.
E’ estremamente
complesso, nell’attuale stato di cose, distinguere le interazioni davvero
volontarie da quelle inquinate dalla coercizione, essendo la presenza attiva
dello Stato pervasiva in ogni settore, dato l’alimentarsi della credenza dell’irrinunciabilità
del monopolio come soluzione ultima del nodo gordiano giuridico e politico.
Il monopolio è
consustanzialmente inefficace perché la capacità giuridica, ed etica, è propria
di ciascun singolo individuo, e solo fittiziamente può essere concentrata in un
soggetto collettivo, mentre il mercato (libertario) è la rete delle interazioni
negoziali tra gli individui. Ogni individuo, nell’interagire con gli altri, avanza
una propria ipotesi normativa e la sottopone al vaglio altrui; in questo senso,
ciascun individuo emette un proprio diritto
soggettivo, espressione della propria linea di condotta razionale. Ma dal
confronto con gli altri, nelle diverse situazioni che si vengono così a
determinare, emerge un’entità ulteriore, il diritto
oggettivo, frutto e risultante dal bombardamento reciproco dei diritti
soggettivi.
Il diritto oggettivo è
quindi un emersione, che si ripercuote a propria volta sulla realtà
sottostante, proponendosi quale standard orientativo delle condotte individuali,
alla ricerca di parametri di certezza, ai quali ancorare la propria iniziativa.
Il diritto, soggettivo
come oggettivo, è adeguato in quanto
sia in grado, tanto in quanto articolazione linguistica, quanto per il suo
essere rappresentativo degli stati di cose sui quali incidere, di collegarsi
efficacemente con il mondo, consentendo la propria effettiva vigenza con il
successo della scelta più opportuna. Ma questa è un’altra storia…