di Fabio Massimo Nicosia
Da anni girano
nuove letture accademiche (ovviamente americane o non italiane, dato che gli
italiani in questo ambito sono molto carenti, evitando argomenti specifici e
tecnici in quanto filosofi politici, preferendo restare sul vago) su John
Locke, con le quali si è smesso di fornire letture banalizzanti di Locke come
cantore principalmente della proprietà privata e del proto-capitalismo (stiamo
parlando di un autore del diciassettesimo secolo), come facevano i primi
lettori marxisti (cattivi lettori), per cogliere gli aspetti dell'Autore che
definiremmo "sociali": in particolare, questi aspetti sono
rappresentati da due elementi fondamentali: a) lockean proviso (Dio
ha donato la Terra in comune agli uomini); b) carità (Dio ha donato la Terra in
comune agli uomini).
La mia tesi è che
tali elementi non siano di contorno, come probabilmente è stato ritenuto a
lungo, ma vanno a segnare nel profondo la teoria lockeana della proprietà,
fino a farmi dire in questi giorni che Locke è addirittura un autore
"socialista", appunto nei termini che egli è al contempo il fondatore
del liberalismo moderno e del socialismo moderno, intendendosi il suo
socialismo come socialismo liberale, libertario e utopistico: ossia, ritengo
Locke l'autore che ha avviato il percorso che conduce al socialismo utopistico
dell'ottocento, dato che la sua concezione del diritto di proprietà nasce di
già intrisa delle limitazioni che immagineremmo in un autore socialista e non
ci aspetteremmo da un autore squisitamente liberale, o, oggi, neo-liberale.
a) Il lockean
proviso, la clausola di Locke, fu evidenziata per primo, almeno credo, da
Robert Nozick; in ogni caso, fu con Nozick che si aprì il dibattito al
riguardo, soprattutto nei circoli left-libertarian americani, i quali, in
quanto filosofi analitici, sono attratti da questo tipo di dettagli e li
prendono molto sul serio.
Il lockean
proviso esprime il principio, per il quale l'occupante è legittimato a
divenire proprietario del suolo che ha occupato, esclusivamente se residua agli
altri atrettanto suolo e altrettanto buono; questo parrebbe un problema
dell'ultimo occupante, più che del primo, in ogni caso, tale clausola esprime
il concetto che, avendo Dio donato la Terra in comune agli uomini, ragionando
in termini proprietaristi, ognuno deve averne la sua quota, nessuno può
rimanere privo di titoli di proprietà, altrimenti dove andrebbe a stare il
poveraccio? Sarebbe sempre soggetto al volere dell'altro, e quindi non sarebbe
libero, ma subordinato ai soggetti proprietari.
Ne ricavo che, se
quota per me non c'è, mi compete una rendita di esistenza, in modo tale da
potere pagare l'affitto di un luogo dove stare, mi compete una sorta di
risarcimento per il fatto che a me non è stata assegnata alcuna quota di Terra,
nonostante il fatto che mi spettasse in quanto destinatario a mia volta del
dono divino.
b) Il punto della
"carità" è forse addirittura più intrigante, dato che vediamo il
concetto religioso fare prorompente ingresso nel discorso filosofico politico,
e lo fa in modo meraviglioso, dato che si tratta di ricostruzione
originalissima. Non è originale l'idea che la carità sia un diritto soggettivo
perfetto da parte del povero, dato che tale concetto risale a canonisti
medievali come il francescano Ockham, che rappresentava un po' la "sinistra"
di quel movimento; essendo diritto soggettivo perfetto del povero, e non mera
liberalità del ricco, il ricco è gravato da un obbligo giuridico compiuto in
tal senso: il punto più originale sta quando Locke mi dice che il ricco non è
proprietario pieno di tutti i suoi beni, ma mero depositario di
beni che sono comuni, almeno fin quando la povertà non sia debellata!
Tale esigenza di
carattere sociale, che discende sempre a propria volta dall’essere stati tutti
i beni della Terra donati da Dio in comune agli uomini, viene quindi ad
assumere, a mio avviso, carattere preclusivo rispetto alla
legittimità delle appropriazioni individuali, e il collocare in posizione di
primazia lessicografica il bene dei poveri su quello delle appropriazioni, mi
fa pensare, insieme a discorso sul lockean proviso, a un Locke
socialista vero e proprio, pur riaffermando il filosofo il diritto alla
proprietà privata, di tal che ci troviamo in realtà alle origini del socialismo
liberale e libertario. A questo va aggiunto che, in tal modo, Locke, del quale
viene normalmente sottolineata l’attenzione al tema del lavoro, in
quanto atto fondativo della facoltà stessa del divenire proprietari, in realtà
stia scindendo l’idea del reddito da quello di lavoro, in quanto, in
nome della carità, ognuno ha in realtà diritto di conseguire un reddito vitale,
indipendentemente dal fatto del lavorare; non solo: poggiando la carità
sulla comunione originaria dei beni, il diritto a conseguire un reddito, non
solo non deriva quindi concettualmente dall’atto del lavorare, ma deriva dal
fatto di essere originariamente comproprietari del Mondo, ergo dalla
titolarità di un diritto di proprietà, inteso come qualcosa di
primordiale e preliminare rispetto all’atto del lavorare, e non come esito dell’atto
del lavorare: o meglio, la proprietà individuale consegue dal lavoro, ma
la proprietà comune originaria compete a tutti indipendentemente dal fatto
che lavorino: basta l’esistenza, ma l’esistenza non è “mera”, ma da subito
associata al fatto istituzionale “comproprietà del Mondo”.
Ne deriva anche
che, se Locke riteneva di primario rilievo il sostentamento del povero fino ad
abolizione della miseria, egli sarebbe stato anche a favore di forme come il
reddito di cittadinanza, il reddito di base, la rendita di esistenza e simili,
proprio in base alla ragione detta, ossia l’avere lui, forse per primo, scisso
il diritto al conseguimento di un reddito dall’onere del lavorare.